Il gennaio 2016 è stato fatale per diversi grandi nomi della musica. Non mi ero ancora capacitato della morte di David Bowie che già leggevo di un’altra illustre scomparsa dal firmamento del rock mondiale: Glenn Frey, autore, voce, chitarra e fondatore degli Eagles. Sono sempre stato un grande appassionato della famosa band californiana, e in Glenn – che avevo avuto modo di apprezzare anche come solista – trovavo il mio componente preferito. Un mio pur piccolo tributo mi sembra doveroso: si tratta della rivisitazione della recensione che scrissi nel 2008 a proposito di “Long Road Out Of Eden”, l’ultimo album degli Eagles, dell’ormai lontano 2007, quando non soltanto Glenn Frey era vivo e vegeto ma quando il gruppo stesso era tornato a nuova vita, pubblicando il suo primo album dai tempi di “The Long Run” del 1979.
Ora che Glenn non c’è più, “Long Road Out Of Eden” diventa il testamento artistico degli Eagles, l’epitaffio d’una carriera stratosferica, ricchissima di successi e sorretta da una popolarità che non è mai scemata, e questo nonostante 28 anni di separazione tra l’ultimo e il penultimo album… un’eternità nel curriculum di qualunque rockstar. Dopo una tale attesa è difficile aspettarsi un altro capolavoro, c’è quasi da pensare che ormai si tratti di un’altra band.
Eppure non sono stati anni silenziosi: negli Ottanta, gli Eagles hanno spesso collaborato l’uno al progetto solista dell’altro, così da non tagliare mai del tutto i ponti; e poi c’era stato un primo ritorno, nel 1994, con l’album live “Hell Freezes Over”, impreziosito da quattro nuove canzoni da studio. Nel 2000 i nostri salutarono il nuovo millennio sul palco davanti al loro pubblico, mentre tre anni dopo aggiunsero la nuova Hole In The World in un’antologia di successi. Le stesse Fast Company, No More Cloudy Days e Do Something, tre delle venti canzoni contenute in “Long Road Out Of Eden”, sono state rese note al grande pubblico con qualche anno d’anticipo rispetto all’album.
Insomma, “Long Road Out Of Eden” non è venuto dal nulla ma ha richiesto anni di affinamento e ripensamenti. Lo stile musicale dell’album – edito sia come doppio ciddì che doppio vinile – è infatti quanto di più rassicurante un fan potesse desiderare: un perfetto mix fra sonorità retro e contemporanee, con più d’un occhiolino al glorioso passato della band. A proposito, la formazione è così composta: Glenn Frey – chitarra, tastiera, basso & voce – Don Henley – batteria, percussioni, chitarra & voce – Timothy B. Schmit – basso & voce – e Joe Walsh – chitarra, tastiera & voce. Manca quindi il chitarrista Don Felder, già da tempo fuori dalla formazione ufficiale degli Eagles, nonostante avesse partecipato al progetto “Hell Freezes Over”.
C’è da dire che alcuni brani suonano come delle prove soliste alle quali hanno collaborato gli altri in veste di musicisti e coristi: in questo senso credo che Frey l’abbia fatta da padrone, mentre più stretta mi pare l’intesa fra Henley e Schmit. Meno prominente, invece, il contributo di Walsh, tuttavia protagonista di alcuni momenti assai interessanti. Nel complesso possiamo però affermare che in “Long Road Out Of Eden” gli Eagles, intesi come una band, ci sono e si sentono eccome.
Si parte con No More Walks In The Wood, sorta d’inno ambientalista acappella: è una canzone minimale, pacata, della durata di appena due minuti, scritta da Don Henley e Steuart Smith (uno dei principali collaboratori al disco) ma basata su una poesia di John Hollander. Segue quindi la cover di How Long (che i nostri già eseguivano dal vivo nei primi anni Settanta), scelta come singolo apripista; scritta e pubblicata nel 1972 da J.D. Souther, storico (co)autore degli Eagles, How Long suona pur tuttavia irresistibilmente eaglesiana e figura i due leader, Glenn e Don, a dividersi il canto solista.
Prima composizione Henley/Frey a figurare nell’album, Busy Being Fabulous è un rilassato e orecchiabile country-rock dove Don canta della superficialità che può subentrare in una relazione. Lo stesso binomio del brano precedente è autore di What Do I Do With My Heart, tenera e romantica ballata, stavolta con Glenn alla voce solista; veramente da applausi il bridge seguìto da uno scambio vocale fra le voci di Frey, Henley – che si riserva anche alcune linee soliste – e Schmit per il ritornello finale.
Caratterizzata da batteria secca e pianoforte in stile western, Guilty Of The Crime è una baldanzosa cover d’un brano dei Bellamy Brothers; stavolta abbiamo Joe Walsh al microfono principale, con la sua chitarra solista più tipica che finalmente si ritaglia uno spazio maggiore di quanto le era stato concesso finora nell’album.
Splendida canzone, I Don’t Want To Hear Any More è una rivisitazione dell’ancora più splendida I Can’t Tell You Why del ’79, entrambe affidate alla delicata voce di Timothy B. Schmit. La canzone che più amo è però Waiting In The Weeds, una gemma prossima agli otto minuti di durata; cantata da Henley con commovente passione, alterna momenti più malinconici (nella parte delle strofe) a ottima musica da viaggio (nel ritornello, cantato all’unisono con Timothy). Bello il bridge, bella la lunga coda finale, belle le parti di banjo eseguite da Steuart, insomma una gran bella canzone!
Suadente e rilassata cavalcata country, No More Cloudy Days è scritta e cantata da Glenn: come in ogni grande pezzo degli Eagles, qui i cori sono bellissimi (con Henley e Schmit in primo piano), anche se il caldo assolo di sax in chiusura è più tipico dello stile solista freyano. Fast Company è invece un funky rock che sembra una sorta di distesa Life In The Fast Lane, altro hit storico dei nostri; la sua peculiarità è tuttavia il canto in falsetto di Henley, che non si ascoltava in modo così prominente da One Of These Nights del ’75. La morbida voce di Schmit torna invece in primo piano nella successiva Do Something, anche se la raschiata voce di Henley – oltre a farsi sentire forte e chiara nei cori – si ritaglia qualche verso in solitaria sul finale di questa commovente ballata.
Al delicato country di You Are Not Alone, scritto e cantato da Frey, spetta il compito di chiudere il primo cd su toni di speranza e dolcezza. Tutt’altra atmosfera troveremo nel secondo cd. Long Road Out Of Eden è infatti un dolente e amaro brano di progressive-rock della durata superiore ai dieci minuti, dove finalmente troviamo in grande spolvero la chitarra solista di Walsh; bello e coinvolgente il suo assolo, a cinque minuti buoni dall’inizio. Cantato da Henley (che è l’autore del brano assieme a Frey e Schmit), il testo è una critica esplicita all’America di oggi, di certo fra le cose più coraggiose ed epiche mai proposte dagli Eagles.
Quasi a voler schiarire la plumbea atmosfera del pezzo precedente, ecco I Dreamed There Was No War, un placido seppur breve strumentale composto da Frey, dove la chitarra solista viene sorretta da efficaci arrangiamenti per sintetizzatore e orchestra. Ancora Glenn è protagonista con Somebody, tirato brano rock da autoradio (scritto con uno degli autori di fiducia di Frey, Jack Tempchin), forte di scintillanti parti di chitarra. Il canto di Frey, piuttosto teso, è alle prese con un testo alquanto gotico… apparentemente c’entra poco con la produzione eaglesiana ma, a ben vedere, anche il testo di quel classicone di Hotel California ha un che di gotico e maledetto, per cui i conti tornano.
E se con Frail Grasp On The Big Picture torna protagonista la voce raschiata di Don, per un robusto brano funk-rock dai toni accusatori verso l’America della guerra e del petrolio, nella successiva Last Good Time In Town si risente il canto solista di Walsh. Qui l’arrangiamento latineggiante attenua un po’ il tono ombroso di questo lungo brano di rock californiano; se il testo (scritto proprio da Joe, con J.D. Souther) parla d’un volontario esilio, la musica è molto coinvolgente: oltre ai noti percussionisti Lenny Castro e Luis Conti, fa affidamento sulla secca batteria, la semplice ma pronunciata linea di basso, le coloriture di tastiere e fiati, ma soprattutto la chitarra alquanto blues di Joe.
I Love To Watch A Woman Dance è una cullante melodia cantata da Frey e affidata ad alcuni tipici strumenti western quali fisarmonica e banjo; sembra di sentire gli Eagles suonare davanti ad un falò nel cuore d’un villaggio di pionieri, mentre una qualche sensuale danzatrice ammalia gli occhi. E se con Business As Usual, brano viscerale introdotto da un’ariosa sequenza di accordi chitarristici scanditi da una secca batteria, la voce di Don è ancora critica verso la società, con Center Of The Universe quella stessa voce è invece alle prese con una disincantata canzone d’amore. Il tono complessivo di questo brano, perlopiù acustico, sembra molto triste ma l’esecuzione e l’intreccio delle voci durante i ritornelli lo trasformano in un’altra gemma all’interno di un album – ormai s’è capito – davvero imperdibile.
Placidamente cantata da Glenn Frey e scritta col fido Jack Tempchin, la messicaneggiante It’s Your World Now suona ad un primo ascolto piuttosto atipica per lo stile degli Eagles. Eppure, con la sua musica consolatoria e il suo testo di commiato, è perfetta per salutare i titoli di coda di questo film ideale che è “Long Road Out Of Eden”, album da studio finale per il celebre gruppo country-rock, qui alle prese con uno dei suoi progetti più riusciti. Addio Glenn, it’s our world now. – Matteo Aceto