Genesis, “And Then There Were Three”, 1978

Genesis And Then There Were Three“Di tutti i nostri album, And Then There Were Three è senza dubbio il più debole”. Parola del bassista/chitarrista Mike Rutherford, che liquida così il primo album dei Genesis ridotti a trio, dopo le dipartite di Peter Gabriel e Steve Hackett tra il 1975 e il ’77. In realtà, riascoltandolo in questi giorni, devo dire di aver trovato “And Then There Were Three” più gradevole e interessante di quanto ricordassi.

Certo, ascoltando tutti gli album dei Genesis, si sente che questo è un disco di transizione, un lavoro che segna il momento decisivo in cui non soltanto la formazione assume il suo numero definitivo di componenti (il fatidico tre indicato anche dal titolo), ma anche il momento in cui si passa dal progressive col quale la band si era fatta apprezzare fin dai primi anni a quel pop d’alta classifica che caratterizzerà la successiva carriera dei nostri.

Accanto a brani come Burning Rope e Deep In The Motherlode, riconducibili allo stile che i Genesis avevano adottato fino all’album precedente, in “And Then” figura infatti il pezzo più smaccatamente pop mai proposto dai Genesis fino a quel momento, ovvero la celebre Follow You Follow Me, emblematicamente accreditata a tutti i tre i membri superstiti. Successo da Top Ten nella classifica britannica, l’irresistibile Follow You Follow Me trascinerà “And Then There Were Three” fino al terzo posto delle charts, risultato più alto mai raggiunto allora per un album dei Genesis in patria, nonostante la “nuova onda” del punk si fosse abbattuta proprio su queste band di capelloni primi anni Settanta.

Ed è proprio con una risentita risposta alla new wave che “And Then” si apre, con la coriacea Down And Out, una canzone dove la voce urlante di Phil Collins e il maggior peso acquisito dal sound della sua batteria sembrano prefigurare brani quali In The Air Tonight (1981, del solo Collins) e Mama (1983, degli stessi Genesis). Non mancano comunque momenti più intimisti, rappresentati da due splendide ballate come Undertow e Many Too Many. Tuttavia è proprio ascoltando il lavoro alla chitarra di Rutherford in quest’ultima canzone che forse si avverte di più la mancanza d’un chitarrista solista del calibro di Steve Hackett.

La formazione a tre, se non altro, trarrà beneficio della dipartita di Hackett in fatto di concisione delle canzoni e in una maggior strutturazione delle parti strumentali. Parti più concise, per l’appunto, più immediate e più attinenti alla narrazione delle canzoni, la quale affronta soprattutto relazioni sentimentali e interpersonali, lasciandosi indietro i riferimenti alla narrativa fantastica tipo Tolkien che aveva caratterizzato le liriche dei nostri fino a poco tempo prima.

I “nuovi” Genesis, tuttavia, ci misero un po’ ad ingranare la marcia giusta: sempre secondo Mike Rutherford, l’album “era nato mettendo insieme i brani che Tony e io avevamo composto essenzialmente ognuno per conto proprio, mentre i Genesis erano partiti come un progetto collettivo”, ritenendo infine che tale album “avesse sofferto proprio della carenza di brani scritti insieme”. Su undici pezzi, infatti, quattro sono accreditati al solo Tony Banks (e sono i migliori dell’album) e tre al solo Rutherford, mentre Phil Collins ha collaborato collettivamente ai restanti quattro brani, tra cui la già citata Down And Out.

Non è probabilmente un caso che nel 1979 non uscì nessun nuovo album dei Genesis, con i tre impegnati in progetti solistici o paralleli al gruppo; il successo inaspettato del singolo Follow You Follow Me prima e dello stesso album dopo, evidentemente, hanno fatto capire ai nostri che se non altro avevano imboccato la strada giusta. Si trattava solo di affinare lo stile. Uno stile che si dimostrerà vincente per tutti gli anni Ottanta e per gran parte dei Novanta, con una sfilza di album da primo posto in classifica. Ma questa è già un’altra storia. – Matteo Aceto

(le dichiarazioni di Mike Rutherford sono tratte dal libro “Genesis Revelations”, la storia del gruppo narrata dai suoi stessi membri e curata da Philip Dodd)

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C’erano cose che volevo dire…

Aspettando l’ispirazione necessaria a completare un terzetto di post che giace fra le bozze di Immagine Pubblica da fin troppo tempo, ecco un po’ di cose che volevo dire (beh, vabbè, scrivere…) senza occupare molto spazio per ognuna di esse. L’ordine è del tutto casuale & opinabile, i vari punti che seguono non hanno nessuna precisa connessione fra di loro… in generale si parla di musica, film & libri… ma tu guarda un po’!

I Genesis sono entrati nella Rock and Roll Hall of Fame… e ‘sti cazzi, potrebbe dire qualcuno. In effetti, anche a me, queste cerimonie, queste parate oserei dire, mi lasciano sempre abbastanza indifferente. Tuttavia, mi ha fatto piacere rivedere Steve Hackett assieme ai vecchi colleghi Tony Banks, Phil Collins e Mike Rutherford. Mancava il solito Peter Gabriel, impegnato coi preparativi del suo tour, così s’è detto… certo che una serata a mangiare & bere in un albergo di New York non è che lo avrebbe intralciato più di tanto. Un po’ stronzo, dài. A parte tutto, comunque, mi piacerebbe proprio sentire un nuovo disco realizzato dalla combinazione (chi c’è c’è, non me ne importa nulla) di questi signori.

Ho visto il tanto atteso “Alice In Wonderland” di Tim Burton, ovviamente in 3D… che dire… un po’ deludente. A volte manca proprio ritmo & tensione narrativa, il 3D non è che qui compie chissà quali prodigi, il tutto è un po’ troppo colorato per un film di Burton. Ok, è una produzione Disney, ma resta pur sempre un film di Tim Burton. Insomma, sì, mi aspettavo di più.

Dopo aver visto l’episodio Agenzia matrimoniale tratto dal film “L’amore in città”, ho finalmente visto TUTTE le opere filmiche girate da Federico Fellini! Mi ero promesso di approfondire alcune di queste singole visioni in specifici post ma ammetto di non averlo ancora fatto. E’ che, vedendo & rivedendo le opere di Fellini, scopro ogni volta qualcosa in più, per cui correrei il rischio di scrivere qualcosa che poi andrebbe corretto di lì a poco. Ci proverò comunque, probabilmente mi serve più tempo.

Ovviamente sono felicissimo per la doppietta Ferrari allo scorso GP del Bahrain, il primo della stagione. La prima vittoria di Fernando Alonso, al debutto in Ferrari. Sono soddisfazioni (soprattutto dopo un’annata deludente come quella del 2009)!

Ho sentito l’ultimo disco dei Gorillaz, “Plastic Beach”… non male… sono rimasto particolarmente colpito da Stylo, edito come primo singolo. Stavo addirittura per comprarmelo, “Plastic Beach”, l’avevo già preso e mi stavo perfino dirigendo alla cassa per pagare. Poi ho pensato ai quindici euro & novanta necessari all’acquisto e ho pensato subito dopo che erano troppi per un disco del genere. Ci ripenserò non appena lo metteranno nella categoria ‘nice price’.

La Beggars Banquet ha da poco ristampato alcuni suoi titoli in formato deluxe; le nuove edizioni si chiamano ‘Omnibus Edition’ e, fra quelle che ho potuto vedere nelle rivendite, vi sono alcuni dischi dei Bauhaus e alcuni dei Cult. In particolare, di questi ultimi è stata riproposta una versione di “Love” comprendente ben quattro ciddì: uno con l’album originale, uno coi brani aggiunti, uno con demo & rarità e infine un altro con un concerto dell’epoca. E il prezzo era molto interessante, ventitré euro per quattro dischi… pur avendo già il ciddì standard di “Love” ci farò un pensierino.

Sto faticosamente leggendo “Scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini: allora, il libro – che è una raccolta di articoli che il nostro scrisse fra il 1973 e il ’75 per varie testate editoriali – è assai illuminante e profetico. Una lettura piuttosto amara, avara però d’ironia e di leggerezza che mi ha fatto rallentare di molto lo scorrere dei miei occhi sulle pagine di “Scritti corsari”. Ho però l’intenzione di finirlo a breve.

Sono arrivato all’inquietante peso degli ottanta chilogrammi, un record per me. Mi sa che un ritorno in palestra (l’ultima volta risale al 2006) mi farebbe un gran bene…

Infine, per concludere, sono sicuro che non pubblicherò un altro post prima di Pasqua, per cui… ne approfitto ora per augurare buona Pasqua a tutti quelli che mi hanno seguito fin qui. Alla prossima, ciao! – Matteo Aceto

Genesis

genesisC’è stato un periodo, tra gli ultimi anni Novanta & i primi di questo decennio, in cui ho avuto un bisogno bruciante d’andarmi a sentire e/o comprare quanti più dischi dei Genesis potevo, sia che fossero cantati da Peter Gabriel, sia da Phil Collins, sia che facessero a meno di tutteddue, e sia che l’album in questione fosse un’opera solista. In tempi più recenti, tuttavia, ammetto d’aver ascoltato sempre meno i Genesis, seppur si siano ormai conquistati un posto ben soleggiato fra le mie passioni. Insomma, anche se oggi non li sento più con lo stesso fervore d’una volta, ho pur sempre tutti gli album da studio dei Genesis, gran parte di quelli dal vivo, un cofanetto, tutti i dischi di Phil Collins, quasi tutti quelli di Peter Gabriel, la prima raccolta dei Mike & The Mechanics, l’album eponimo dei GTR, e “Still” di Tony Banks. Ho inoltre avuto modo di sentire “The Geese & The Ghost” di Anthony Phillips, ho assistito a un concerto solista di Steve Hackett, anche se non ho mai ascoltato i Brand X. Tutti questi nomi rappresentano personaggi & vicende legati alla straordinaria storia dei Genesis, una storia che cercherò di ripercorrere a grandi linee in questo post, basandomi su un mio scritto precedente.

Siamo in Inghilterra, nella seconda metà dei Sessanta, quando due band di studenti si fondono per dar vita a un nuovo gruppo, i Genesis per l’appunto. La formazione è un quintetto composto da Peter Gabriel (voce, flauto), Tony Banks (tastiere varie, chitarre), Mike Rutherford (basso, chitarre), Anthony Phillips (chitarre assortite) e un batterista vacante, in questo caso John Silver (tanto per dirne uno). I primi singoli dei Genesis, That’s Me e The Silent Sun, sono pubblicati tra il ’67 e il ’68 – quando l’età media dei componenti del gruppo s’aggira sui diciotto anni – ma già nel ’69 la Decca pubblica un primo album, “From Genesis To Revelation”. E’ un disco ispirato ai temi biblici della creazione, forse un intento più ambizioso delle reali capacità creative/espressive dei nostri, che riescono comunque a proporre un lavoro apprezzabile.

Tra il ’69 e il ’70 avvengono i primi dei numerosi cambiamenti importanti nella storia dei Genesis: John Mayhew diventa il nuovo batterista, e il gruppo firma per la Charisma (in seguito inglobata dalla Virgin), la casa discografica alla quale resterà legata per sempre. Con la formazione rinvigorita e forte d’un contratto discografico più concreto, i Genesis approntano così un nuovo album, “Trespass”, edito nel 1970. Pur non essendo un capolavoro, il disco segna un importante passo avanti nello stile artistico dei nostri, che riescono pure a circondarsi d’una piccola schiera di fedeli ammiratori. Gli evidenti passi in avanti non impediscono però a uno dei pilastri compositivi, Anthony Phillips, d’abbandonare la band, seguìto qualche tempo dopo anche da Mayhew. Pare proprio che il povero Phillips – a disagio coi meccanismi della discografia e con una pur minima popolarità – abbia lasciato un’impronta ben più grande di quanto gli sia stato riconosciuto in anni successivi. Di recente, comunque, l’ombrosa figura di Anthony è tornata al centro dell’attenzione degli studiosi. Io stesso vorrei saperne di più, sperando quindi di poter approfondire il discorso con un post futuro.

Sulle prime l’abbandono del chitarrista principale è sconfortante ma i Genesis riescono ad andare avanti (sarà una costante…) arruolando in pochi mesi due nuovi membri: il batterista Phil Collins e il chitarrista Steve Hackett. Finalmente si completa quella che viene ricordata come la formazione classica dei Genesis – il quintetto Banks, Collins, Gabriel, Hackett & Rutherford – una formazione che, secondo il parere di molti critici & appassionati, ha dato vita ai dischi migliori della band. Abbiamo in effetti un magnifico poker d’album di ‘rock progressive’ che – da “Nursery Cryme” del ’71 fino a “The Lamb Lies Down On Broadway” del ’74 – ha ridefinito i canoni della musica inglese degli anni Settanta. In particolare, gli album “Foxtrot” (1972) e “Selling England By The Pound” (1973), sono due dei dischi più belli che io possa vantare nella mia collezione.

Tuttavia, all’apice d’una ricerca artistica, creativa & espressiva assolutamente degna di nota, Peter Gabriel, l’uomo immagine dei Genesis, il leader carismatico, lascia il gruppo nel ’75 con grande costernazione dei fan sempre più numerosi. Peter covava l’ambizione della strada solista, seguendo tutt’altro tipo di sperimentazioni sonore, anche se la sua defezione dai Genesis sembrava più una crisi personale (forse pure un esaurimento nervoso) che un reale contrasto in seno al gruppo. Gabriel resterà infatti sempre legato ai suoi amici (in particolare a Collins) tanto da riapparire – per quanto solo episodicamente – nella storia dei Genesis già nel 1978, e poi nel 1982 e ancora nei Novanta.

L’abbandono di Peter non segnò la fine del gruppo, come molti paventavano, anzi, i Genesis raggiunsero senza di lui l’apice del successo & della popolarità, proprio a partire dall’album “A Trick Of The Tail”, registrato all’indomani della defezione di Gabriel e fermatosi al 3° posto della classifica inglese, ovvero il più alto piazzamento per un album dei nostri fino a quel momento. Edito al principio del ’76, “A Trick Of The Tail” è un disco bellissimo, cantato dall’uomo che fino a quel momento della storia del gruppo aveva profittato ben poco del microfono principale: il batterista. A breve, Phil Collins dimostrò un talento naturale per l’istrionismo tipico dei frontmen, anche perché aiutato dalle sue esperienze recitative in gioventù. Oltre che, va da sè, dotato d’una voce molto bella & particolare che è diventata un marchio di fabbrica, sia per i dischi dei Genesis e sia per quelli (baciatissimi dal successo per tutti gli Ottanta) che pubblicherà a proprio nome.

Sempre nel ’76, il redivivo quartetto dei Genesis pubblica persino un nuovo album, “Wind & Wuthering”, un disco tanto malinconico quanto complesso (‘il nostro disco più complesso’ affermerà Collins), seguìto qualche tempo dopo da un ottimo doppio elleppì dal vivo, “Seconds Out” (1977). Tuttavia il quartetto ha una vita ancor più breve del quintetto, dato che il ’77 segna anche l’abbandono di Steve Hackett, che già nel ’75 – con l’album “Voyage Of The Acolyte” – aveva tentato un primo discorso solista, seppur coadiuvato da Rutherford e Collins (i quali, fra l’altro, suoneranno pure nell’ammirevole e già menzionato “The Geese & The Ghost” di Phillips). Per quanto il buon Steve sia sempre stato un ottimo chitarrista, il suo abbandono fu ancora meno sofferto di quello di Peter, tanto che il gruppo ci scherzò sopra: “And Then There Were Three”, e alla fine rimasero in tre, si chiama quel bel disco di transizione pubblicato in un anno, il 1978, in cui i vecchi eroi del rock inglese avevano dovuto reinventarsi in seguito all’esplosione del fenomeno punk che metteva proprio i ‘dinosauri’ della musica al centro delle sue critiche. Nonostante i cambiamenti interni & esterni, “And Then There Were Three” – spinto dall’irresistibile singolo Follow You, Follow Me – conquistò comunque piazzamenti importanti in Top Ten. E il meglio, dal punto di vista del successo, deveva ancora arrivare!

Nel 1980 esce il decimo album da studio dei Genesis, “Duke”, che vola al 1° posto della classifica inglese, così come fanno i successivi “Abacab” (1981), “Genesis” (1983), “Invisible Touch” (1986) e “We Can’t Dance” (1991). E tutto ciò mentre in quegli stessi anni Phil Collins riscuote un enorme successo da solista e Peter Gabriel diventa ormai un punto fermo per tutti gli appassionati di musica contemporanea. Il record arriva nell’86, in un momento in cui ben cinque dischi piazzati nella Top Ten inglese sono di derivazione genesisiana: “No Jacket Required” di Collins, l’eponimo primo album dei Mike & The Mechanics (band formata da Rutherford col bravissimo Paul Carrack), l’eponimo dei GTR (supergruppo costituito da Hackett con Steve Howe), “So” di Gabriel e, ovviamente, “Invisible Touch” al 1° posto.

Il resto è storia abbastanza recente: Phil annuncia nel ’95 d’aver lasciato i Genesis per mutuo consenso & senza rancore, mentre il gruppo – rivitalizzato da un nuovo, giovante cantante, lo scozzese Ray Wilson – pubblica nel ’97 l’album “Calling All Stations” (2° posto della classifica inglese). Nel ’99 esce l’antologia “Turn It On Again/The Hits”, dove Peter e Phil duettano in una nuova versione di Carpet Crawlers, mentre ai primi del 2007 viene annunciato con grande enfasi un tour mondiale che segna il ritorno del trio storico dei Genesis – Banks, Collins & Rutherford. Il tour ha grande successo, il gruppo non solo si toglie lo sfizio di partecipare al Live Earth ma si concede la bella soddisfazione di suonare al Circo Massimo di Roma al cospetto di cinquecentomila entusiastici appassionati, fra cui il sottoscritto.

Dal 2008, complice pure una grande operazione di riproposizione del catalogo storico della band, si torna a parlare con una certa insistenza d’una reunion dei Genesis che coinvolga anche Peter Gabriel e Steve Hackett. Per me i tempi sono ormai maturi e, sempre che la questione abbia un vero fondamento, ne vedremo/sentiremo presto delle belle! – Matteo Aceto

Fatti, smentite & opinioni personali sui Queen

Quei pochi che abitualmente leggono questo sito lo sanno: sono sempre stato un grande appassionato dei Queen. Il celeberrimo gruppo inglese è stato il primo verso il quale ho nutrito quella genuina manìa che ti porta a comprare in poco tempo tutti gli album e le raccolte fin lì realizzate. Per la verità ho ascoltato i Queen da sempre: anche se inconsapevolmente, mi ricordo benissimo di aver sentito – negli anni Ottanta, quand’ero bambino – brani come Another One Bites The Dust e Radio Ga Ga alla radio. Probabilmente conobbi il nome Queen sul finire di quel decennio, quando la Lancia (all’epoca vittoriosissimo marchio automobilistico impegnato nei rally con la mitica HF integrale) pubblicizzava i suoi successi con uno spot televisivo nel quale si sentiva l’originale We Are The Champions. E’ in quell’occasione che chiesi agli adulti ‘di chi è questa canzone?’. ‘Dei Queen’, mi rispose qualcuno.

In tutti questi anni, però, devo tristemente ammettere che ho letto & sentito più cazzate sul conto dei Queen e di Freddie Mercury che di ogni altro gruppo del pianeta. Per dirne una, ricordo benissimo anche un orribile articolo su una rivista musicale per adolescenti che compravo quando andavo alle superiori, “Tutto – Musica e Spettacolo”: in un servizio su Mercury a pochi anni dalla morte, si leggeva in una didascalia accanto ad una foto che Freddie si trovava in un party fra travestiti… era un’immagine tratta dal videoclip di The Great Pretender, ma quale party fra travestiti?! Come ho detto, ne ho sentite & lette davvero tante, sia dai comuni appassionati e sia da chi scrive di musica per mestiere (nel senso che viene pagata per farlo). E allora, imbarcandomi in una titanica impresa, ecco una serie di fatti veri, falsi (e quindi smentiti) e una serie di opinioni del tutto personali su quello che sono & che hanno rappresentato i Queen.

  • E’ difficile ascoltare casualmente i Queen: di solito li si ama o li si odia. Non restano però indifferenti, è impossibile non accorgersi della loro musica.
  • I critici musicali, dal canto loro, non li hanno mai potuti soffrire. Ho letto parole veramente cattive sulla musica dei Queen, ma anche all’indomani della morte di Freddie.
  • Però i dischi dei Queen sono vendutissimi e molto collezionati, anche prima che il tragico destino di Mercury ingigantisse il mito: album come “A Night At The Opera” (1975), “A Day At The Races” (1976), “The Game” (1980), “The Works” (1984), “A Kind Of Magic” (1986), “The Miracle” (1989) e “Innuendo” (1991) sono finiti dritti dritti in testa alla classifica inglese dell’epoca (e nelle Top Ten di mezzo mondo). Il tutto in un periodo in cui la concorrenza non era certo quella di Leona Lewis o Robbie Williams, non so se m’intendo.
  • La prima raccolta ufficiale dei Queen, “Greatest Hits” (1981), è attualmente il disco più venduto nel Regno Unito, scavalcando perfino il mitico “Sgt. Pepper” dei Beatles.
  • Tutti e quattro i componenti dei Queen hanno scritto almeno un hit di fama mondiale: We Are The Champions per Freddie Mercury, We Will Rock You per Brian May, Another One Bites The Dust per John Deacon, Radio Ga Ga per Roger Taylor. Sono canzoni strafamose che conoscono anche i sassi. Quali altri gruppi possono vantare una tale distribuzione di successi autoriali individuali per ogni singolo componente? Credo nessuno, nemmeno i Beatles…
  • Per quanto i quattro componenti dei Queen avessero prolificità autoriali ben diverse (i più attivi sono stati May e Mercury), la struttura del gruppo è sempre stata molto democratica, con ognuno libero di scrivere le proprie canzoni, di suonarsele e di cantarsele perfino.
  • I primi due album del gruppo, “Queen” (1973) e “Queen II” (1974) s’ispiravano anche nei titoli ai primi dischi dei Led Zeppelin: di lì a poco, tuttavia, i Queen diedero vita alla loro personale concezione del rock, incorporando nel loro inconfondibile stile epico elementi tratti dalla lirica, dalla classica, dal funk, dalla disco e sperimentando con l’elettronica. Non è raro trovare negli album dei Queen delle innocue canzoncine pop accanto a travolgenti episodi hard rock.
  • Freddie Mercury ha innovato il modo di concepire il rock innestandovi elementi operistici: già con Bohemian Rhapsody dei Queen (1975) ottenne un risultato a dir poco notevole, ma diede il meglio di sè in tal senso con l’album “Barcelona” (1988), realizzato con la regina della lirica, Montserrat Caballé.
  • Anche se non è vero che il primo videoclip della storia sia Bohemian Rhapsody, i Queen hanno però pubblicato per primi una raccolta di videoclip: “Greatest Flix” (1981).
  • Nei dischi dei Queen sono accreditati come musicisti/cantanti aggiuntivi: Joan Armatrading, David Bowie, Steven Gregory, Steve Howe, Michael Kamen, Mack, Fred Mandel, Arif Mardin, Mike Moran. Non accreditato: Rod Stewart.
  • Secondo alcune fonti, esiste una versione inedita di Play The Game dei Queen dove canta anche Andy Gibb. Non sono riuscito a saperne di più, le stesse fonti sui Bee Gees non mi sono state utili finora in tal senso.
  • Negli archivi si trovano diversi brani inediti dei Queen, fra cui (in ordine cronologico): Silver Salmon, Hangman, la cover di New York New York (nella sua forma integrale), Dog With A Bone, A New Life Is Born, Self Made Man e My Secret Fantasy. Più altre tre o quattro improvvisazioni registrate con Bowie durante l’incisione di Under Pressure.
  • Se in futuro dovessero spuntar fuori collaborazioni d’annata fra componenti dei Queen e Elton John o Rod Stewart o componenti dei Guns N’ Roses prendetele per buone.
  • I Queen si sono esibiti nel corso dello storico Live Aid (1985) in un cartellone che, fra gli altri, figurava Paul McCartney, Sting, David Bowie, Tina Turner, Madonna, Phil Collins, Mick Jagger e i redivivi Led Zeppelin: a detta di tutti sono stati i più grandi (sembrava che lo stadio di Wembley fosse lì solo per loro) e, di fatto, hanno surclassato tutti gli altri partecipanti alla manifestazione.
  • Il noto concerto di Wembley del luglio 1986 (in realtà furono due concerti, la sera dell’11 e quella del 12) non fu l’ultima esibizione dei Queen. Fu l’ultima nella loro città, Londra.
  • I celebri Mountain Studios situati nell’incantevole cittadina svizzera di Motreux sono appartenuti per molti anni ai Queen. Una statua di Freddie Mercury è stata posta sulle rive del lago di Givevra.
  • I Queen non si sono mai schierati politicamente, forse anche per questo la critica li ha sempre bistrattati.
  • Sono una delle rock band più istruite culturalmente: due di loro sono laureati (John e Brian), gli altri due diplomati.
  • Sono il gruppo pop-rock occidentale più popolare in Giappone. Molto amati anche in Sudamerica, nei primi anni Ottanta i Queen riempivano tranquillamente stadi da oltre 100mila persone.
  • Si sono esibiti in Italia solo in quattro occasioni: due appuntamenti al Festival di Sanremo e due concerti a Milano, tutti nel 1984.
  • Il singolo Radio Ga Ga venne pubblicato in anteprima in Italia, iniziando a circolare già nel dicembre 1983; curiosamente il copyright del quarantacinque giri era datato 1984.
  • Freddie Mercury è stato il più grande cantante rock e uno dei più carismatici e vitali front-men.
  • Brian May è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Un gigante fin troppo sottovalutato (che diavolo c’avrà trovato l’umanità in Eric Clapton e Mark Knopfler la scienza me lo deve ancora spiegare…).
  • All’album “Mr. Bad Guy” di Freddie Mercury prendono parte, in un modo o nell’altro, tutti gli altri Queen: in particolare Man Made Paradise è un’esibizione di gruppo.
  • Brian May e Roger Taylor hanno partecipato, assieme a Giorgio Moroder, a Love Kills, successo solista di Freddie datato 1984.
  • May ha collaborato con numerosi altri celebri artisti, fra cui: Black Sabbath, Guns N’ Roses, Eddie Van Halen, Steve Hackett e Dave Gilmour.
  • Freddie Mercury ha registrato due canzoni (tuttora inedite) con Michael Jackson, There Must Be More To Life Than This e State Of Shock. Pare anche una terza, Victory, ma ci credo poco.
  • I Queen hanno registrato le musiche e le canzoni per due noti film: “Flash Gordon” (1980) e “Highlander” (1986).
  • Il vero nome di Freddie Mercury è Farroukh Bulsara, nato sull’isola di Zanzibar il 5 settembre 1946 da genitori di origine iraniana.
  • Freddie non è mai stato sposato, né ha mai messo al mondo dei figli. Era gay, dal 1985 al 1991 ha convissuto con Jim Hutton, tuttavia il suo più grande amore è stato Mary Austin, cui è stato fidanzato per gran parte degli anni Settanta. Mary è sempre rimasta amica di Freddie e ha ereditato la splendida villa vittoriana acquistata dal cantante nei primi anni Ottanta.
  • Freddie ha vissuto anche a New York e Monaco Di Baviera, in gioventù ha trascorso diversi anni in India.
  • Freddie non aveva la patente… però si faceva scarrozzare in giro con la sua Rolls Royce.
  • Freddie è morto la sera del 24 novembre 1991, quando mancavano pochi minuti alle diciannove (la notizia è trapelata verso la mezzanotte).
  • Parte dei proventi delle canzoni firmate da Freddie Mercury va ad un fondo per la ricerca contro l’aids, il Mercury Phoenix Trust.
  • L’idea originale del brano The Show Must Go On è di Brian May (quindi che nessuno mi venga più a rompere col fatto che Freddie abbia implicitamente autorizzato la band ad andare avanti senza di lui).
  • Un’altra canzone che molti attribuiscono a Mercury, These Are The Days Of Our Live, è stata invece composta da Taylor.
  • Il Roger Taylor che viene ringraziato nelle note di copertina dell’album “Blah-Blah-Blah” (1986) di Iggy Pop non è un componente dei Duran Duran, ma proprio il batterista dei Queen.
  • I Depeche Mode non hanno mai fatto da supporto nei concerti dei Queen.
  • “Made In Heaven” (1995) non è il fantomatico ultimo album dei Queen, bensì una compilation rimaneggiata dai tre Queen superstiti e comprendente brani più o meno inediti del periodo 1980-1991.
  • Non ho mai desiderato di comprare la cassetta (o il dvd) del “Freddie Mercury Tribute” dell’aprile 1992. Di fatto non ce l’ho.
  • Sul finire degli anni Novanta, John Deacon ha avuto il buon gusto di tirarsi fuori dalla vicenda dei Queen perché pensava che, in seguito alla morte di Freddie e dopo i necessari ‘tributi & omaggi’, la band avrebbe dovuto piantarla lì.
  • Brian May e Roger Taylor, che potrebbero tranquillamente far campare di rendita non solo essi stessi ma anche i propri nipoti, hanno avuto la genialata di resuscitare il marchio Queen. Per quanto niente possa importargliene, io non ho mai approvato quella decisione.
  • Non ho mai visto il musical “We Will Rock You” – basato sulle canzoni dei Queen – né ho intenzione di farlo in futuro.
  • Mi sono rifiutato di comprare due fra le più inutili compilation mai apparse sul mercato discografico: “Queen Rocks” (1997) e “Greatest Hits III” (1999).
  • In anni recenti è stata messa sul mercato una serie di orribili gioielli a nome di Freddie Mercury. Lo stesso sito ufficiale dei Queen pubblicizzava l’ignobile iniziativa.
  • Quel tale, Paul Rodgers, non c’entra un cazzo con la storia dei Queen. Per quanto mi riguarda non ho mai ascoltato i Free o i Bad Company e – considerando come stanno le cose – ora me ne vanto pure.
  • “The Cosmos Rocks” (2008) è un album che non entrerà mai in casa mia.
  • I signori May e Taylor (o chi per loro alla EMI) hanno svenduto la musica dei Queen alle aziende pubblicitarie.
  • Troppa gente continua a scrivere Freddie con la Y (…Freddy). Da parte sua, il cantante non ha mai gradito che lo si chiamasse Fred.
  • Nel 2007 s’è parlato molto d’un prossimo film biografico sulla vita di Freddie Mercury: fra gli attori contattati per interpretare la parte del cantante vi sarebbero il grande Johnny Depp e l’istrionico Sacha Baron Cohen (quello di “Borat”): pare che un tale onore spetterà a quest’ultimo.
  • Nel corso del 2009 tutti gli album da studio e dal vivo dei Queen sono stati pubblicati ad uscite periodiche in edicola, abbinati a “TV Sorrisi e Canzoni”: un’operazione che dimostra come i Queen siano molto popolari e amati dal pubblico più eterogeneo.
  • Poche chiacchiere: il 90% della musica dei Queen suona potente & attuale anche oggi.

Ovviamente non posso aver risposto coi fatti a tutte le stronzate che ho letto & sentito negli ultimi vent’anni; se mi verrà da aggiungere qualcosa aggiornerò questo post [ultimo aggiornamento: 23 ottobre 2010]. – Matteo Aceto

I concerti più memorabili

Paul McCartney live roma 2003Se in questo 2008 che ormai volge alla fine ho stabilito il mio record personale di dischi acquistati, non ho però assistito a nessun concerto di particolare rilevanza. Un po’ per mancanza di soldi, un altro po’ per pigrizia e molto per via del fatto che i miei artisti preferiti non hanno dato concerti in Italia. E così, sia come augurio per l’anno che verrà e sia per guardarmi indietro con piacevole nostalgia, ecco una breve lista dei concerti che più mi hanno emozionato negli ultimi anni, con qualche sintetico commento da parte del sottoscritto.

Eric Clapton: dal vivo a Pesaro nel marzo del 2001 con una band cazzutissima. Anche se ora ritengo il buon Eric un sopravvalutato, questo fu un concerto bellissimo e senza nessun calo di forma e/o stile.

The Cure: dal vivo a Roma nell’estate del 2002, per quasi tre ore di musica dove la band di Robert Smith ha spaziato senza risparmiarsi dalle canzoni di “Three Imaginary Boys” ai brani più recenti (per l’epoca) di “Bloodflowers”. Grandissimi!

Depeche Mode: dal vivo a Bologna nell’ottobre 2001, in un concerto esaltante del tour di “Exciter” che la sera prima aveva fatto tappa a Milano. Una band in formissima alle prese con un repertorio che ho cantato dalla prima all’ultima canzone. Apprezzai anche l’esibizione del gruppo di supporto, i Fad Gadget.

Genesis: dal vivo a Roma nell’estate 2007, in occasione del Telecomcerto gratuito del 14 luglio che ha attirato ben 500mila persone. La formazione includeva tre membri originali – Phil Collins, Tony Banks e Mike Rutherford – più due storici collaboratori, Daryl Stuermer (chitarra) e Chester Thompson (batteria). Uno dei più maestosi spettacoli che ho avuto il privilegio di gustare.

Steve Hackett: dal vivo a Pescara nel marzo 2007, fu un graditissimo aperitivo acustico prima del grande concerto romano dei Genesis. Ne ho parlato QUI.

Scott Henderson: dal vivo a Orsogna (Chieti) nell’agosto del 2006 vidi in azione uno dei più abili e impressionanti chitarristi che io abbia mai avuto il piacere d’ascoltare. Eccezionalmente bravi anche i due musicisti che quella sera accompagnarono Scott sul palco: Kirk Covington alla batteria e John Humphrey al basso.

Paul McCartney: dal vivo a Roma, lungo il suggestivo sfondo dei Fori Imperiali, nel maggio del 2003, in occasione del primo Telecomcerto gratuito (nella foto sopra). Questo è stato forse il concerto più emozionante della mia vita, se la batte alla pari con un altro che vedremo fra poco…

The Mission: dal vivo a Roma nell’autunno del 2005, in una formazione che purtroppo includeva il solo Wayne Hussey fra i componenti storici della band inglese; la scelta dei pezzi e la loro esecuzione furono comunque memorabili.

Peter Murphy: dal vivo a Roma nell’estate 2005, in uno dei posti peggiori che io abbia mai visitato per ascoltare della musica dal vivo. Ma l’emozione di aver visto cantare a un metro da me il leader dei Bauhaus, il piacere di avergli stretto la mano, e i suoi autografi sulle copertine dei miei dischi hanno ben ripagato i soldi spesi per il biglietto e il viaggio.

The Police: dal vivo a Torino nell’ottobre del 2007… strepitosissimi! Ne ho parlato abbondantemente QUI.

Prince: dal vivo a Milano il 31 ottobre 2002 per un concertone che riportava il folletto di Minneapolis in terra italiana dopo dieci anni buoni d’assenza, stavolta per promuovere l’album “The Rainbow Children”. Ci andai da solo, contro tutti & tutto, e ne valse la pena alla grandissima, fosse solo per il fatto di averlo visto suonare e cantare Purple Rain a pochi metri da me!

David Sylvian: dal vivo a Roma nel settembre 2007 in uno dei posti più splendidi dove ho potuto ascoltare della musica live, l’Auditorium della Conciliazione, a pochi passi dal Cupolone. Tanti i pezzi tratti dal recente “Snow Borne Sorrow” (2005) ma anche tante piacevoli escursioni nel suo passato solista. Ospite d’eccezione, alla batteria, il fratello Steve Jansen.

Roger Waters: dal vivo a Roma nel giugno 2002 con una band grandissima di musicisti e coriste. Tre ore in compagnia di una leggenda alle prese con delle canzoni che sono entrate nella storia. Ho detto tutto. Permettetemi di chiudere questo post su toni di nostalgia dolceamara… mi sento fortunatissimo ad aver avuto l’opportunità di applaudire da vicino tutti questi grossi calibri, rimpiango però di non aver mai visto dal vivo Miles Davis, Freddie Mercury e i Clash. – Matteo Aceto

Peter Gabriel

peter-gabriel-immagine-pubblicaNel mio vecchio blog, Parliamo di Musica, avevo già dedicato un post a Peter Gabriel ma ho preferito non trasferirlo qui e scriverne quindi uno nuovo. In effetti si trattava più di una protesta che della storia del celebre cantante inglese, perché ritengo Peter un tantino sopravvalutato. A quanto pare sono uno dei pochi appassionati dei Genesis che non lo rimpiange, avendo nutrito sempre più simpatia per Phil Collins che per lui. Credo che l’era Gabriel dei Genesis (1969-1975) abbia prodotto dei dischi stupendi non per la presunta grandezza del nostro, ma dal contributo di cinque grandi artisti – Gabriel compreso, ovviamente – che hanno fatto un lavoro eccellente finché hanno lavorato insieme. Poi, a giudicare dai due album realizzati dai Genesis prima dell’arrivo di Phil Collins e Steve Hackett, cioè “From Genesis To Revelation” (1969) e “Trespass” (1970), e da quello immediatamente successivo all’abbandono di Peter, vale a dire “A Trick Of The Tail” (1976), mi lascia pensare che la mente più ispirata in seno ai Genesis non fosse certamente Peter Gabriel. Questo confrontando inoltre la produzione post-Gabriel dei Genesis coi lavori solisti di Peter. Voglio dire, non mi pare che i Genesis guidati da Phil Collins abbiano fatto così tanto schifo così come non mi pare che i dischi solisti di Gabriel siano tutti dei capolavori. Fatta questa premessa – spero non troppo contorta – passo più specificatamente alla carriera solista del nostro.

Peter Gabriel, classe 1950, abbandona la band che gli aveva dato una prima notorietà internazionale, i Genesis per l’appunto, nella primavera del ’75, dopo essere stato il maggior ispiratore del primo concept-album del gruppo, lo stupendo “The Lamb Lies Down On Broadway” (1974). Tuttavia, col resto dei Genesis che procede come quartetto incontrando per giunta il maggior successo in classifica fino a quel punto della loro storia col magnifico “A Trick Of The Tail” (1976), Peter si concede un anno sabbatico, in modo da riordinare le sue turbolente idee. Tornerà alla ribalta l’anno successivo, nel 1977, con un indimenticabile singolo,
Solsbury Hill, e un primo album omonimo dalla resa altalenante. Prodotto da Bob Ezrin (già al lavoro con Lou Reed e in seguito coi Pink Floyd), “Peter Gabriel” è comunque un risultato pregevole, suonato da ospiti prestigiosi (cosa che si ripeterà per tutti i dischi successivi di Peter) quali Robert Fripp, Tony Levin e lo stesso Phil Collins, tuttora grande amico del nostro.

Peter Gabriel bissa l’operazione nel ’78, con un secondo album omonimo, stavolta con Robert Fripp anche in veste di produttore. Purtroppo il lavoro si rivela essere il peggiore fra gli album del nostro, tanto che nella sua prima raccolta, “Shaking The Tree” (1990), figureranno brani estratti da ogni album di Peter tranne che da questo. Nel ’78, tuttavia, Peter Gabriel ha la possibilità di riavvicinarisi, almento dal punto di vista umano, ai suoi ex colleghi dei Genesis, comparendo a sorpresa in un bis d’un loro concerto.


Prodotto da
Steve Lillywhite, ecco nel 1980 un terzo album omonimo da parte di Gabriel, quello contenente I Don’t Remember, Games Without Frontiers, Family Snapshot e soprattutto la straordinaria Biko. Per me è questo suo terzo album il migliore della discografia solista di Peter Gabriel, l’unico del quale non potrei mai separarmi, anch’esso forte della partecipazione di ospiti illustri: oltre agli ormai abituali Tony Levin (che suona il basso nelle canzoni e nei concerti di Peter anche oggi) e Robert Fripp, l’album vanta nuovamente Phil Collins ma anche John Giblin, Kate Bush e Paul Weller, all’epoca ancora leader dei Jam. Per quanto bello e importante, c’è da dire che questo disco non ottenne chissà quale successo mentre in quell’anno i Genesis ottenevano il loro primo numero uno nella classifica inglese con l’album “Duke”, un lavoro certamente non commerciale (con Steve Hackett ormai fuori dal gruppo) che non ha nulla da invidiare all’arte di Peter Gabriel.

Il primo vero successo di Peter è considerato invece il suo quarto album, pubblicato nel 1982, l’ultimo della quadrilogia di dischi omonimi, spinto dall’irresistibile singolo di
Shock The Monkey, senza dubbio uno dei pezzi più famosi del nostro. Un bel disco questa quarta fatica di Gabriel, non c’è che dire, con una virata maggiore in direzione della world music (introdotta già in alcune sonorità del suo album precedente) e un’accentuazione delle atmosfere dark. Oltre a Shock The Mokey, voglio ricordare la stupenda San Jacinto, la saltellante I Have The Touch e l’intensa The Rhythm Of The Heat. Il 1982 è un anno importante per Peter Gabriel anche per un altro motivo: organizza la prima edizione del noto festival etnico chiamato WOMAD (World Of Music And Dance), il quale, stentando a lanciarsi nei primi giorni, viene rivitalizzato da un’inaspettata reunion di Peter Gabriel coi Genesis, che eseguono quindi un set tratto da “The Lamb Lies Down On Broadway”.

Sono anni, per il nostro, in cui comincia a cimentarsi in altri territori, quali il cinema e il supporto ad artisti provenienti dal terzo mondo (il senegalese Youssou N’Dour è probabilmente la maggiore scoperta di Peter in questo senso). E così, dopo aver pubblicato un album dal vivo nel 1983, “Plays Live”, Gabriel realizza la colonna sonora d’un film di Alan Parker, “Birdy” (1984), peraltro riciclando alcune basi strumentali già impiegate nei suoi album. Torna col suo quinto album solista soltanto nel 1986, stavolta un disco con un titolo tutto suo, “So”: tuttora il maggior successo commerciale del nostro e molto probabilmente l’album più amato dai suoi fan, “So” vanta brani memorabili come la famosa Sledgehammer, la tenera Don’t Give Up (dove Peter torna a collaborare con Kate Bush), la ritmata Big Time e soprattutto la straordinaria e imponente Red Rain.

Nel 1988 Peter Gabriel torna a cimentarsi con le colonne sonore, stavolta musicando il controverso film “L’Ultima Tentazione di Cristo” di
Martin Scorsese. Pesantemente intrisa di world music e suonata con strumenti e musicisti mediorientali, la celebrata colonna sonora verrà pubblicata nel 1989 col titolo di “Passion”, mentre Peter torna in studio per incidere il suo sesto album da solista. E qui comincia quella lungaggine nella lavorazione d’un disco da parte del nostro che continua tuttora: il risultato finale delle sedute vede infatti la luce solo nel ’92, anche se si tratta d’un buon disco, “Us”, forte del singolo Steam (una rivisitazione del fortunato Sledgehammer) ma anche di Blood Of Eden (un duetto con Sinéad O’Connor, che all’epoca ebbe una storia col nostro), Digging In The Dirt e Come Talk To Me.

Per quanto Peter Gabriel non sia affatto inattivo nella parte restante degli anni Novanta (collabora con altri artisti, incide musiche sperimentali – arrivando a far suonare dei gorilla in studio – realizza suoni e canzoni per opere multimediali, compone colonne sonore, partecipa a lodevoli iniziative umanitarie…), “Us” risulterà il suo unico album da studio pubblicato in quel decennio. Bisognerà infatti attendere il 2002, ben dieci anni dopo, per vederne un seguito nei negozi, vale a dire il deludente “Up”. Non che “Up” sia un brutto disco ma, fin dalla prima volta che l’ho ascoltato, ho avuto la netta impressione di trovarmi alle prese con una raccolta di brani inediti più che un lavoro unitario e compatto. E’ a quel punto che comincio a disaffezionarmi a Peter Gabriel… fa aspettare i fan per dieci anni e poi fa uscire una roba del genere?!

All’epoca il buon Peter promise che i suoi fanatici ammiratori non avrebbero dovuto aspettare tanto per il seguito di “Up”, che sarebbe uscito addirittura nel 2004. Siamo nel 2007… sono già passati cinque anni… confesso che non faccio più parte di quelli che stanno ad aspettare il nuovo ciddì di Peter Gabriel. Oggi come oggi non potrebbe fregarmene di meno. – Matteo Aceto

Queen: storia e discografia

queenQueen si formarono nel 1970 a Londra, dalle ceneri degli Smile, gruppo più o meno progressive dove già militavano Brian May (chitarra, piano e voce) e Roger Taylor (batteria e voce). Con l’arrivo di Freddie Mercury (voce e piano), la band cambiò quindi nome in Queen. Nel corso del ’71, infine, entrò un bassista in pianta stabile, il mite ma affidabile John Deacon, e finalmente i Queen poterono avviare il loro corso musicale.

Tutti e quattro i componenti del gruppo iniziarono a comporre nuove canzoni, ripescandone alcune dal periodo degli Smile e alcune dal periodo di Freddie con gli Ibex e i Wreckage, le sue formazioni precedenti. Intanto i Queen firmarono per la EMI che, soltanto nel luglio ’73, si decise a pubblicare il primo album della band, l’omonimo “Queen“, anticipato dal singolo Keep Yourself Alive. Problemi con le tempistiche nei giorni di registrazione, errori di gioventù da parte del management e una certa diffidenza dei discografici ad aprire le porte a un gruppo chiamato Queen (in slang inglese ‘queen’ sta per ‘checca’), fecero apparire nei negozi un album che era già superato, sia dai concorrenti della band che dalle stesse doti compositive dei propri membri.

L’album successivo, il ben più ambizioso “Queen II“, segnò infatti una decisa maturazione dello stile dei nostri verso quella tipica sonorità che caratterizzerà la vita artistica di Freddie Mercury e compagni, ovvero un rock epico e teatrale, tanto melodico quanto potente. Forte d’un singolo da Top Ten come Seven Seas Of Rhye, “Queen II” riscuoterà un incoraggiante successo in patria, anche grazie alla qualità delle sue canzoni, fra le quali ricordo White Queen, Father To Son, Ogre Battle e The March Of The Black Queen. Farà comunque meglio il terzo album della band, sempre del 1974, l’eclettico e variegato “Sheer Heart Attack“, che spinto dall’imprevisto successo del singolo Killer Queen (2° posto in Gran Bretagna) si piazzò al 2° posto della classifica inglese. Questo terzo album dei nostri contiene inoltre classici come Stone Cold Crazy, Now I’m Here, In The Lap Of The Gods (Revisited) e Brighton Rock.

Il botto per i Queen giunse però nel ’75, grazie al successo di due prodotti artistici sensazionali: il singolo Bohemian Rhapsody e l’album “A Night At The Opera“, entrambi giunti al 1° posto nelle rispettive classifiche inglesi. L’album, il cui titolo è preso da un film dei Fratelli Marx, contiene anche You’re My Best Friend, I’m In Love With My Car e Death On Two Legs ed è riconosciuto dai critici come il capolavoro dei Queen.

La band replicò i fasti nel ’76 col singolo Somebody To Love (2° in patria) e l’album “A Day At The Races” (dal titolo sempre preso da un film dei Marx e ugualmente al 1° posto in classifica) ma poi dovette fare i conti con una scena rock notevolmente cambiata. L’esplosione del fenomeno punk in Inghilterra, fra il ’76 e il ’77, mette infatti in discussione i cosiddetti dinosauri del rock, cioè quelle band come Led Zeppelin, Genesis, Pink Floyd e gli stessi Queen, che avevano spinto i confini tracciati dal rock ‘n’ roll verso un’opera più complessa e dalle notevoli qualità artistiche. In un modo o nell’altro un po’ tutte le band suddette riusciranno a passare indenni ma saranno costrette a modificare non poco i propri stili sonori. I Queen ne vennero fuori più che dignitosamente, grazie ad un album auto-prodotto come “News Of The World” (1977), forte di due hit storiche come We Are The Champions e We Will Rock You, accoppiate insieme in un unico, formidabile singolo. Il ’77 si ricorda anche come l’anno in cui uscì un primo atto solista da parte d’un componente dei Queen, ovvero Roger Taylor col singolo I Wanna Testify, mentre un paio d’anni prima Mercury e May avevano partecipato alla realizzazione d’un singolo per il misconosciuto cantautore Eddie Howell.

Nel 1978 i Queen ritrovarono il produttore Roy Thomas Baker – col quale avevano realizzato il fortunato “A Night At The Opera” – e pubblicarono “Jazz“, un disco fantasioso e compatto che si issò al 2° posto della classifica di casa. Impreziosito da autentiche perle quali Bicycle Race, Don’t Stop Me Now, Jealousy, Fat Bottomed Girls e Let Me Entertain You, “Jazz” resta tuttora uno degli ascolti più accattivanti nella discografia dei Queen.

Se il ’79 non vide nei negozi nessun nuovo disco da studio dei Queen (uscì però “Live Killers”, un potente doppio elleppì dal vivo), nel 1980 si vedranno ben due nuovi album nelle rivendite: “The Game”, contenente singoli strafamosi come la rockabilly Crazy Little Thing Called Love (edita già durante il ’79) e la funky Another One Bites The Dust, e “Flash Gordon“, colonna sonora elettro-ambient dell’omonimo film. Sono due lavori notevoli che esaltarono per una volta sia critica che pubblico, soprattutto “The Game” che raggiunse la vetta della classifica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche sul versante live i Queen si dimostrarono in gran forma, suonando con successo praticamente ovunque e divenendo campioni d’incassi soprattutto in Giappone e in Sudamerica. Per suggellare questo momento d’oro ma anche per festeggiare i loro dieci anni d’attività comune, i Queen pubblicarono quindi “Greatest Hits” (1981) e si tolsero lo sfizio di collaborare con David Bowie, realizzando un singolo da 1° posto in classifica, la superlativa Under Pressure. Nello stesso 1981, inoltre, uscì il primo album d’un Queen solista, ancora Roger Taylor, col suo “Fun In Space”.

Per quanto riguardava il nuovo album dei Queen, invece, la band pensò bene d’esplorare le sonorità più funky e disco accennate nel precedente “The Game”: ne nacque così “Hot Space“, l’album che più si discosta dallo stile abituale dei nostri. Pubblicato nel 1982, “Hot Space” suscitò molte proteste anche da parte dei fan storici, perché sacrificava gli aspetti più rock e heavy dei Queen a favore di arrangiamenti più elettronici e danzerecci. Nonostante “Hot Space” riuscisse a salire fino al 4° posto in classifica e ad agguantare un disco d’oro, l’esperienza scottò gli stessi Queen che per un periodo di tempo preferirono separarsi in modo da dedicarsi ai vari progetti solisti. In particolare, Brian May organizzò una grande jam session con Eddie Van Halen che nel corso dell’83 si tradusse in un mini album chiamato “The Starfleet Project”, accreditato a Brian May & Friends. Freddie Mercury collaborò invece con altri artisti, fra cui Billy Squier, Michael Jackson, Rod Stewart, Giorgio Moroder e iniziò ad incidere il suo primo album solista, “Mr. Bad Guy“, che vedrà la luce solo nel 1985. Più concretamente, Roger Taylor pubblicò nel 1984 il suo secondo album solista, “Strange Frontier”, mentre John Deacon, solitamente il componente meno prolifico dei Queen, collaborò, nel corso degli anni Ottanta, con The Immortals, Errol Brown degli Hot Chocolate, Elton John e Minako Honda.

Nell’estate del 1983 i Queen ebbero però modo di ricostituirsi e di tornare in sala di registrazione: a fine anno uscì quindi lo straordinario singolo di Radio Ga Ga (al 1° posto in molti Paesi europei), seguìto nel febbraio ’84 dal robusto “The Works“, undicesimo album da studio dei nostri, che riportò meritatamente i Queen al vertice della classifica inglese, anche grazie ad altri tre bei singoli come I Want To Break Free, It’s A Hard Life e Hammer To Fall. Dopo un altro periodo di pausa nel 1985 – interrotto solo dalla trionfale apparizione al Live Aid e dall’uscita del potente singolo One Vision – i Queen tornarono alla grande nell’86 con l’album “A Kind Of Magic“, ancora un numero uno nella classifica di casa. L’album, in parte colonna sonora del film “Highlander”, figura celebri pezzi come A Kind Of Magic, Who Wants To Live Forever, Princes Of The Universe e Friends Will Be Friends e venne supportato da un entusiastico e fortunato tour in giro per l’Europa, purtroppo ricordato come l’ultimo tour dei Queen.

Il 1987 vide i componenti della band tornare ad occuparsi delle proprie carriere soliste, specialmente Freddie e Roger: se il primo realizzò su singolo la cover di The Great Pretender e prese a collaborare col soprano Montserrat Caballé per quello che sarà l’album “Barcelona” (1988), il secondo diede addirittura vita ad una band parallela, The Cross, nella quale assunse il ruolo di cantante e chitarrista ritmico. Il primo album dei Cross, “Shove It”, uscì quindi entro l’anno e figurava una canzone cantata dallo stesso Mercury, Heaven For Everyone (più tardi recuperata dai tre Queen superstiti come omaggio a Freddie). Anche Brian May iniziò a registrare del materiale solista, parte del quale figurerà nel suo primo album, “Back To The Light” (1992), ma perlopiù preferirà collaborare con altri artisti, fra i quali ricordo Black Sabbath, Steve Hackett, Holly Johnson dei Frankie Goes To Hollywood, Def Leppard, Extreme, Chris Thompson, Billy Squier e altri. In realtà in quegli anni il versatile chitarrista dei Queen visse un difficile periodo personale culminato con la morte dell’amato padre e col sofferto divorzio dalla moglie.

Il nuovo album dei Queen, “The Miracle“, giunse finalmente nel maggio ’89 e volò direttamente al 1° posto della classifica inglese, supportato da due singoli potenti e memorabili come I Want It All e Breakthru. In realtà il successo dell’album sarà tale da spingere la EMI ad estrarne altri tre singoli, The Invisible Man, Scandal e la stessa The Miracle. Tuttavia alcune dichiarazioni di Freddie alla stampa e il fatto che i Queen non intrapresero nessun tour per supportare il nuovo disco diedero il via alle prime illazioni che volevano il cantante vittima d’una misteriosa malattia, molto probabilmente l’AIDS. Sarà proprio così, purtroppo, ma le reali condizioni di salute di Mercury – che peggioreranno progressivamente – saranno avvolte da un assoluto riserbo fino al giorno prima della sua morte. Freddie preferì infatti concentrarsi sull’unica cosa che gli dava la forza di andare avanti e di esorcizzare la paura: la composizione di nuova musica. Perciò, quando “The Miracle” era ancora in fase promozionale con singoli e videoclip, i Queen già tornarono in studio per dargli un seguito.

La gestazione del nuovo album risulterà più laboriosa del previsto, sia per la carenza dell’apporto di John Deacon e sia soprattutto per le condizioni fisiche di Mercury, sempre più affaticato e debilitato. Ciononostante la band realizzò un capolavoro, quello che secondo me è il loro album migliore, “Innuendo“, il quale raggiunse la vetta della classifica inglese (così come il singolo omonimo edito poco tempo prima) all’indomani della sua pubblicazione, avvenuta nel febbraio ’91. Un album straordinario “Innuendo”, del quale ricordo le canzoni The Show Must Go On, I’m Going Slightly Mad, Headlong e These Are The Days Of Our Lives.

A dieci anni dal primo “Greatest Hits”, ecco quindi “Greatest Hits II”, pubblicato nell’ottobre ’91 e contenente i successi dei Queen del periodo 1981-1991. E’ il primo disco che comprai di persona (avevo da poco preso il mio primo stereo), il ciddì che mi farà presto appassionare alla musica dei Queen, portandomi all’acquisto di tutti i loro album nel giro d’un paio d’anni. Purtroppo, però, il 24 novembre Freddie Mercury morì nella sua villa vittoriana di Kensington, dopo aver dato ufficialmente l’annuncio sulle sue vere condizioni di salute il giorno prima, per mezzo del manager dei Queen, Jim Beach. La causa della morte di Freddie è stata una polmonite dovuta alle carenze di difese immunitarie… AIDS bastardo!

Il cordoglio per la scomparsa della voce rock più bella di tutti i tempi e per uno dei maggiori entertainer del Ventesimo secolo fu grande in tutto il mondo. Diversi esponenti del pop-rock e del metal angloamericano – Elton John, David Bowie, George Michael, Metallica, Guns N’ Roses, Paul Young, Robert Plant, Liza Minnelli e altri – omaggeranno la figura e l’arte di Freddie in un grandioso concerto svoltosi allo stadio di Wembley nell’aprile 1992, organizzato dai tre Queen superstiti come evento benefico per raccogliere fondi da devolvere alla ricerca contro l’AIDS. Lo stesso Freddie, nel suo testamento, diede l’avvio alla creazione del Mercury Phoenix Trust, un ente per la raccolta di fondi contro la terribile malattia, gran parte dei quali messi a disposizione dagli stessi crediti autoriali delle sue canzoni.

Dopo il Freddie Mercury Tribute dell’aprile ’92, i membri dei Queen procederanno da soli, con Brian May che finalmente pubblicò il suo primo disco solista vero e proprio, il già citato “Back The Light”, edito nel luglio di quell’anno e seguìto, nel ’94, da “Happiness?” di Roger Taylor (dopo aver dato alle stampe altri due album a nome The Cross), lavori discografici dedicati entrambi all’amico scomparso. Un tributo più consistente a Freddie giunse però nel ’95, vale a dire il quindicesimo album da studio dei Queen, il discusso “Made In Heaven“. Il primo album post-Mercury s’avvalse ancora dell’arte del compianto cantante, giacché raccoglieva in una nuova forma tutte quelle canzoni che, per un motivo o per l’altro, erano state escluse dagli album del gruppo nel periodo 1980-1991. Gli inediti veri e propri, tuttavia, erano soltanto cinque: la riflessiva It’s A Beautiful Day, la gospeliana Let Me Live, la struggente Mother Love, la movimentata You Don’t Fool Me e la commovente A Winter’s Tale.

Un disco che mi soddisfò appena, “Made In Heaven”, ma che comunque comprai e accettai come parte della storia discografica dei Queen. La maggior parte di tutto quello che è venuto subito dopo, come antologie d’ogni sorta, remix, cofanetti, album live, dischi e tournée con altri cantanti e bassisti, nonché canzoni vendute alla pubblicità, o mi ha lasciato indifferente o mi ha deluso come fan. La mia passione per la musica dei Queen, almeno fin dove è potuto arrivare Freddie Mercury, è rimasta tuttavia inalterata dopo tutti questi anni. E di questo non posso che essere grato anche ai signori May e Taylor. – Matteo Aceto

I sostituti (a breve termine)

the-beatles-jimmy-nicolQualche tempo fa ho letto su Rockol che Joey Jordison, batterista degli Slipknot, farà parte nei Korn per cinque mesi, sostituendo il dimissionario Terry Bozzio, mentre la band valuterà un sostituto permanente. La notizia mi ha dato lo spunto per un post dedicato ai sostituti a breve termine, vale a dire quei componenti che hanno fatto parte d’una band per un breve periodo, giusto il tempo di completare un album in studio o di affrontare alcune parti d’un tour. Insomma, dei veri co.co.pro in ambito musicale! Vediamo qualche caso, cercando di procedere in ordine cronologico.

Partiamo dai Beatles, i quali, nel giugno del 1964 e alla vigilia d’un tour internazionale, sono costretti a rimpiazzare un influenzato Ringo Starr. Per non cancellare all’ultimo momento tutti gli impegni previsti, i Beatles decisero quindi di ricorrere ad un sostituto, il batterista Jimmy Nicol (nella foto sopra, coi Beatles ‘originali’), sconosciuto ai più nell’ambiente musicale e tornato a vestire i panni dello sconosciuto dopo questa prestigiosa parentesi di undici giorni. Anche i Bee Gees, fra il 1969 e il ’70, dovettero avvalersi d’un sostituto, anzi una sostituta, del tutto particolare: in quel periodo Robin Gibb aveva lasciato momentaneamente il gruppo e per riproporre dal vivo le tipiche armonie vocali a tre dei fratelli, Barry e Maurice pensarono bene di ricorrere alla propria sorella, Lesley Gibb. Una volta che Robin tornò all’ovile, di Lesley si perse però ogni traccia (artisticamente parlando, ovvio).

Pure i Genesis hanno dovuto far ricorso ad un sostituto, all’indomani della sofferta decisione del chitarrista Anthony Phillips – uno dei fondatori del gruppo – di andarsene, nel corso del 1970. Prima che Peter Gabriel e compagni trovassero in Steve Hackett un componente stabile (per poi rimanervi fino al 1977), venne quindi reclutato Mick Barnard, in modo che la band inglese potesse concludere la serie di concerti prevista in quel periodo. Anche per Mick… non so che cosa abbia combinato negli anni futuri.

Facciamo un salto temporale di oltre dieci anni e arriviamo al 1985, quando, nel corso della lavorazione al fortunato album “Love”, il batterista dei Cult, Nigel Preston, si rivelò troppo fuori di testa per poter continuare le sedute; la band si affidò così al bravissimo Mark Brzezicki dei Big Country per terminare l’album. Anche gli irlandesi Pogues beneficiarono d’un illustre sostituto, Joe Strummer dei Clash: al principio degli anni Novanta, Strummer sostituì in alcuni concerti il dimissionario (e fuori di testa) Shane MacGowan, finché Spider Stacy, flautista degli stessi Pogues, decise d’assumere permanentemente anche il ruolo di cantante.

Restiamo sempre in ambito concertistico ma passiamo ai Depeche Mode: durante il massacrante “Devotional Tour” del bienno 1993-94, la band era giunta ad un punto di rottura; un depresso Andy Fletcher capì tutto e mollò il tour nelle sue battute finali. Impossibilitati nel cancellare le date ma forse anche per togliersi di dosso il lavoro, i Depeche Mode ingaggiarono uno dei loro collaboratori, il tastierista Daryl Bamonte, che suonò con Martin Gore e compagni fra il maggio e il luglio ’94, in tutte le tappe previste nel continente americano.

Ritroviamo un altro illustre sostituto nel caso dei Jane’s Addiction: la band californiana effettuò una serie di concerti nel 1997 per suggellare il ritorno sulle scene dopo lo scioglimento del 1991, anche se il bassista Eric Avery non fu della partita. E così i Jane’s Addiction ingaggiarono l’amico Flea, il funambolico bassista dei Red Hot Chili Peppers.

In anni più recenti anche il produttore Bob Rock ha vestito i panni del sostituto: è stato il bassista dei Metallica in studio di registrazione durante le fasi preparatorie dell’album “St. Anger” (2003), dopo che Jason Newsted diede forfait ma prima che quest’ultimo venisse rimpiazzato in pianta stabile da Rob Trujillo dei Suicidal Tendencies.

Ecco, questi sono solo alcuni esempi di sostituzioni temporanee, i primi che mi sono venuti in mente (sono sicuro che anche Eric Clapton è stato un sostituto di lusso in qualche occasione ma al momento non ricordo nulla in proposito). Se ne conoscete degli altri siete calorosamente invitati ad intervenire!

Steve Hackett in concerto a Pescara

Ieri sera mi sono gustato alla grande un bel concerto di Steve Hackett, il chitarrista storico dei Genesis! Prima di fare una piccola cronaca della serata, però, ecco qualche breve cenno sulla figura di Steve Hackett…

Inglese, classe 1950, il buon Steve ha sostituito nei Genesis il dimissionario Anthony Phillips nel corso del 1970, suonando quindi negli album “Nursery Cryme” (1971), “Foxtrot” (1972), “Selling England By The Pound” (1973), “The Lamb Lies Down On Broadway” (1974), “A Trick Of The Tail” (1976) e “Wind & Wuthering” (1976). Dopo aver pubblicato il suo primo album solista, “Voyage Of The Acolyte” (1975), Hackett lascia i Genesis nel ’77 per proseguire definitivamente come solista. Numerosi i suoi album, da “Please Don’t Touch” (1978) al recente “Wild Orchids” (2006), così come le sue collaborazioni, fra le quali ricordo il fratello John Hackett, Brian May dei Queen e Steve Howe degli Yes, col quale ha brevemente fatto parte d’una band parallela, GTR, con un solo omonimo album all’attivo, edito nel 1986. Ecco di seguito quello che ho visto & sentito ieri sera.

Antonella & io arriviamo verso le venti & venti, quando la sala dell’Auditorium De Cecco di Pescara era già piena per metà. Fortunatamente troviamo due posti in seconda fila, davanti a un conoscente che saluto. Mentre invece, appena mi sistemo sulla poltroncina rossa, mi accorgo che davanti a me ci sono due miei carissimi amici di Chieti, due scatenati fratelli, fissati con la musica peggio di me. Ovviamente, mentre aspettiamo l’inizio del concerto, previsto per le ventuno, scambio quattro chiacchiere con loro: si parla solo di musica, in particolare di Steve e dei Genesis, ovviamente, poi di Peter Gabriel, di Bryan Adams, dei Duran Duran, dei Guns N’ Roses e dei redivivi Stooges. Nel frattempo la gente ha riempito la sala & inizia ad accomodarsi in piccionaia.

Finalmente – quando l’orologio segna le ventuno & quindici – le luci si spengono, il tendone in fondo al palcoscenico si tinge d’azzurro, e Steve Hackett (t-shirt nera su pantaloni neri) entra sorridendo e salutando il pubblico. Fa un piccolo inchino, dopodiché si siede sullo sgabello, imbraccia una delle due chitarre già disposte sul palco, la accorda e poi inizia a suonare una dolce melodia in stile flamenco. Ci s’accorge subito, in pochi minuti, che Hackett è semplicemente un bravissimo chitarrista, con una finezza nel tocco assolutamente sopraffina. Al termine del brano, salutato da calorosissimi applausi (una costante per tutta la serata), Steve prende il microfono e saluta il pubblico in italiano: parlerà spesso nella nostra lingua, arrangiandosi più che discretamente. Si ricorda perfettamente della prima volta che è venuto a Pescara, nell’estate del 1999, quando il suo concerto all’aperto venne annullato per il maltempo.

E così, in perfetta solitudine, l’ex Genesis esegue una decina di brani, tratti dal suo ultimo album “Wild Orchids” (2006) e dai suoi dischi precedenti, pescando da “Bay Of Kings” (1983), “Guitar Noir” (1994), “A Midsummer Night’s Dream” (1997), “Metamorpheus” (2005), ma anche dall’omonimo album dei GTR, col brano Imagining. Ovviamente, qua & là, spruzza le sue deliziose composizioni chitarristiche coi riff più famosi del suo periodo nei Genesis, suscitando l’estasi del pubblico. In tutto utilizza a turno due tipi di chitarre, entrambe a sei corde. Conclude questa prima parte in solitaria del suo show con Horizons, una delicata ballata acustica incisa coi Genesis per l’album “Foxtrot”.

Steve viene quindi raggiunto sul palco dal fratello, il flautista John Hackett, e dal tastierista Roger King: a questo punto il tendone in fondo si tinge di rosso. Anche in questo caso, il trio esegue brani presi dalla discografia solista di Steve Hackett e altri tratti dagli album “Foxtrot”, “Selling England By The Pound” e “The Lamb Lies Down On Broadway”. Durante la performance, il tendone in fondo al palco assume altre colorazioni mentre il concerto procede impeccabile, scandìto dai calorosi applausi al termine d’ogni brano. Anche John utilizza a turno due tipi di strumenti: un flauto diritto e uno rovescio. Verso le ventitrè, i tre musicisti lasciano i loro strumenti sul palco, salutano il pubblico, riscuotono le scroscianti acclamazioni & escono lateralmente dal palco.

Subito si sentono i primi cori ‘fuori, fuori, fuori’ da parte degli spettatori. Il trio non si fa attendere e riparte per un ultimo pezzo, una sezione strumentale tratta da Firth Of Fifth, uno dei brani più memorabili dei Genesis. Al termine del concerto, una buona quarantina d’appassionati resta in attesa di poter incontrare Steve Hackett faccia a faccia, magari per farsi firmare qualche autografo. Infatti sbucano da tutte le parti i libretti di ciddì, le custodie di elleppì & gli stessi manifestini pubblicitari del concerto. Anche in questo caso, Steve non si fa attendere: sbuca dal lato opposto dal quale è uscito dal palco, solo che si trova fra noi, in platea… tutti che corrono verso di lui!

Steve si rivela d’una gentilezza & d’una disponibilità uniche per un musicista del suo calibro: firma tutti i dischi che gli vengono messi in mano e si lascia fotografare sempre volentieri. Noi riusciamo a farci autografare un biglietto (per Antonella) e le copertine di tre ciddì dei Genesis (per me). Mi faccio pure un paio di foto con lui, dopodiché gli stringo la mano, lo ringrazio & lo saluto. Ebbeh, che dire… sono molto, molto contento! – Matteo Aceto

Genesis, “Foxtrot”, 1972

genesis-foxtrot-immagine-pubblicaQuarto album da studio dei Genesis, “Foxtrot” è considerato da molti appassionati non solo il loro primo, vero capolavoro ma anche il disco migliore della loro carriera (io comunque lo metterei alla pari col successivo “Selling England By The Pound”). Prima d’addentrarci in una recensione semiseria, però, è forse il caso d’accennare alla formazione della band inglese che lo ha realizzato: Tony Banks (organo, mellotron, piano, chitarra a 12 corde, voci), Steve Hackett (chitarra elettrica, chitarre acustiche a 6 e 12 corde), Phil Collins (batteria, percussioni, voci), Peter Gabriel (voce principale, flauto, percussioni, oboe) e Mike Rutherford (basso, chitarra a 12 corde, voci, violoncello).

“Foxtrot” inizia con Watcher Of The Skies, pulsante e lungo brano la cui introduzione per organo e sintetizzatore, piuttosto dolente, sembra riecheggiare le composizioni di J. S. Bach. Segue la stupenda ballata pianistica di Time Table, canzone fra le più melodiche dell’era Gabriel dei Genesis; una gemma che avrebbe dovuto meritare molto più spazio nelle raccolte antologiche del gruppo.

Get ‘Em Out By Friday è un rocambolesco brano prossimo ai nove minuti: in puro stile progressive, Get ‘Em Out cambia più volte tempo e melodia, ad ennesima dimostrazione della grande versatilità di questa band. Il pezzo successivo è Can-Utility And The Coastliners, caratterizzato da un’altra memorabile melodia: sicuramente uno dei brani migliori dei Genesis alle prese col genere progressive, vede un arrangiamento perfettamente equilibrato fra parti di chitarra e di tastiera. Segue quindi Horizons, un delizioso brano strumentale, una gemma acustica che dura poco più d’un minuto e mezzo e che chiude splendidamente la prima facciata dell’elleppì originale di “Foxtrot”.

Sulla seconda facciata troviamo invece un solo brano, Supper’s Ready, una straordinaria suite della durata di ventitré minuti. Questo brano da antologia è a sua volta diviso in sette parti, tutte collegate fra loro: (i) la prima, Lover’s Leap, è quella che più apprezzo, con la voce più volte raddoppiata di Peter semplicemente fantastica, con quell’arpeggio di chitarra continuo che sorregge un andamento dolce e sognante; (ii) The Guaranteed Eternal Sanctuary Man è leggermente più ritmata & epica, con una melodia che sembra portarci lentamente alla deriva; sul finale c’è una bellissima ripresa strumentale del tema di Lover’s Leap, eseguita col flauto; (iii) Ikhnaton And Itsacon And Their Band Of Merry Men è invece assai più movimentata, anche se il tutto sembra fungere da introduzione per la parte successiva, (iv) How Dare I Be So Beautiful?, un brano lento e dolente registrato più basso (sembra quasi che Peter Gabriel stia cantando una confessione); (v) e se Willow Farm è caratterizzata da uno stile vigoroso & alquanto beatlesiano, (vi) Apocalypse In 9/8 presenta invece un ritmo più epico (soprattutto nella sezione cantata) e saltellante (specie nell’interludio strumentale centrale), finché, con uno scampanellio vagamente natalizio, viene ripreso per la seconda volta il tema iniziale di Lover’s Leap; (vii) il tutto è infine legato alla settima parte della suite, As Sure As Eggs Is Eggs (Aching Men’s Feet), a sua volta un’epica ripresa della seconda parte.

In complesso, come detto, Supper’s Ready presenta ventitré minuti di grande abilità tecnica & inventiva melodica che contribuiscono a fare di questo “Foxtrot” uno dei più fulgidi ed originali esempi dell’era progressive del rock inglese.