The Stranglers, “The Raven”, 1979

the-stranglers-the-raven-immagine-pubblica-blogQuarto album da studio degli Stranglers, pubblicato nell’ormai lontanissimo 1979, “The Raven” è uno dei dischi che più mi affascinano, sebbene io non l’abbia certo ascoltato tutti i giorni. Né posso ritenermi un estimatore di questa band inglese; è soltanto che tanti anni fa, spulciando tra i ciddì del mio negozio di dischi preferito di Pescara, mi imbattei nella tetra immagine di copertina di “The Raven” e ne rimasi subito colpito. Attratto anche dal prezzo basso, decisi di fare così l’acquisto del ciddì a scatola chiusa, senza averne mai sentito prima una sola nota e senza nemmeno conoscere chissà che degli Stranglers (avevo giusto Golden Brown in una compilation di canzoni anni Ottanta).

Stuzzicando una tetraggine di fondo che consapevolmente o meno mi sono sempre portato dentro, “The Raven” è stato quindi per me uno di quei rari casi in cui l’acquisto d’un disco è stato basato più sull’apparenza che sul contenuto. Ad ogni modo, con mio sommo sollievo, una volta ascoltato l’album ho poi scoperto che non era affatto male: condito da abbondanti abbellimenti sintetizzati ma comunque forte di belle parti di basso, batteria e chitarra, “The Raven” è di fatto uno splendido rappresentante della new wave inglese che imperversava in quei tardi anni Settanta.

Non mancano, inoltre, quei due o tre pezzi che bastano da soli a giustificare l’acquisto di tutto un album: c’è Don’t Bring Harry, la malinconica ballata pianistica dalla tematica antidroga che resta probabilmente una delle canzoni più belle degli Stranglers, c’è l’irresistibile power-pop di Duchess, all’epoca edito anche come singolo e con tanto di videoclip censurato, e soprattutto c’è la meravigliosa Ice, con tutti quegli accordi di sintetizzatore saltellanti ma al contempo tetri (che poi si ripropongono minacciosi sul finale di un altro brano del disco, Shah Shah A Go Go).

Oltre alle undici canzoni originali contenute in “The Raven”, la mia copia in ciddì – un remaster della EMI datato 2001 – include inoltre quattro brani bonus (tra cui una versione in francese di Don’t Bring Harry) che contribuiscono a modo loro ad aumentare l’eclettismo e l’originalità di questo quarto lavoro in studio degli Stranglers. Infine, a chi come me è rimasto colpito dalla copertina di “The Raven”, segnalo che, nelle prime tirature dell’elleppì originale, l’immagine dell’inquietante corvo era tridimensionale. Penso che, prima o poi, dovrò procurarmene una. – Matteo Aceto [novembre 2008 / ottobre 2021] Continua a leggere “The Stranglers, “The Raven”, 1979″

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The Cure, “The Head On The Door”, 1985

the-cure-the-head-onthe-door-1985Pubblicato nel 1985, “The Head On The Door” è il primo disco dei Cure che ho avuto modo d’ascoltare, verso la fine degli anni Novanta, quando iniziavo a interessarmi non solo a questa band inglese ma anche a tutta quella scena musicale britannica che, partita dall’esplosione punk del 1977, ha poi virato verso territori più dark se non proprio gotici. In quegli ultimi anni del Ventesimo secolo, infatti, scoprivo i Joy Division e i loro naturali successori, i New Order, ma anche i vari StranglersBauhaus, Siouxsie And The Banshees, The DamnedSisters Of Mercy e The Mission, toccando quindi le coste australiane con band quali The Church e Nick Cave & The Bad Seeds.

Non tutti mi sono piaciuti, o non tutti ho continuato ad ascoltare in seguito, ma alcuni di loro, quali appunto i Cure, mi sono rimasti nel cuore. Così come ci è rimasto questo “The Head On The Door”, uno dei loro lavori più accessibili e pop, quello che mi ha fatto innamorare di tutta una scena musicale e che ha dato avvio alla mia passione per l’universo sonoro di Robert Smith, autore, cantante, chitarrista, produttore e inconfondibile immagine pubblica dei Cure, una band ormai storica, che calca le scene dai tardi anni Settanta e che ancora oggi riempie gli stadi di tutto il mondo. Li ho visti una volta, a Roma nel 2002, in un concerto all’Olimpico tra i più belli (tutte le hit storiche e i brani più amati dai fan) e generosi (3 ore di durata) ai quali io abbia mai assistito.

Avevo già pubblicato qualcosa su “The Head On The Door” nelle precedenti incarnazioni di questo blog, esattamente il 20 aprile del 2007 e il 1° febbraio del 2008. Per chi non conosce il contenuto dell’album e vuol saperne qualcosa di più, ripeto brevemente quanto scritto allora. Si parte col travolgente pop rock di In Between Days, appena 3 minuti di chitarre rotolanti e squillanti che sfidano chiunque a restare immobili, si continua con quello che resta uno dei miei pezzi preferiti dei Cure, Kyoto Song, forte d’un arrangiamento tanto gotico quanto maestoso, e quindi con The Blood, un coinvolgente brano pop rock che infonde un veloce arrangiamento in stile flamenco alle venature più dark tipiche dei Cure, con Six Different Ways, brano più pop che sembra uscito dalle sessioni dell’album precedente, “The Top” (1984), e quindi con Push, altro brano travolgente, coi primi 2 minuti tiratissimi e praticamente strumentali, e forte di una delle migliori prove vocali mai offerte da Smith.

La successiva The Baby Screams ricorda un po’ i New Order (e la cosa non è infrequente nella produzione artistica dei Cure di quel periodo) anche se, una volta che Smith inizia a cantare, si è inconfondibilmente in presenza d’una canzone dei Cure. A seguire c’è Close To Me, uno dei loro pezzi più famosi, riproposto nel 1990 in un remix (con tanto di divertente videoclip che riprendeva l’originale del 1985 nel punto in cui finiva) che ha ridato nuova popolarità sia alla canzone che alla band stessa. A entrambe le versioni, tuttavia, ho sempre preferito la successiva – nella scaletta di “The Head On The Door” – A Night Like This, arricchita da un insolito assolo di sax: dopo 30 anni continua a restare un brano di grande atmosfera, epico e intenso, perfettamente bilanciato fra quelle sonorità irresistibilmente pop e quella sensibilità peculiarmente dark che hanno reso celebri i Cure.

Viene quindi il turno di Screw, breve funky dall’andamento saltellante e robotico che sembra più che altro introdurre il brano finale, Sinking, secondo me il migliore del disco. Con quel ritmo medio-lento che sembra andare alla deriva, le tastiere eteree, il basso pulsante e la voce più unica che rara di Smith, Sinking è una delle canzoni più memorabili dei nostri, quella che segna lo stile maturo dei Cure, uno stile che verrà sviluppato ulteriormente in tutti gli altri dischi della band, da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” del 1987 in poi, trovando compimento definitivo con l’album “Bloodflowers”, quindici anni dopo “The Head On The Door”.

Anche “The Head On The Door”, infine, è stato ripubblicato in edizione deluxe con disco bonus contenente inediti e rarità del periodo. Tra il 2006 e il 2010, infatti, Robert Smith ha curato di persona le ristampe di tutti gli album dei Cure usciti nel primo decennio d’attività della band, cioè tutti i dischi compresi tra “Three Imaginary Boys” (1979) e “Disintegration” (1989), passando anche per “Blue Sunshine” (1983), frutto di quell’estemporanea ma riuscita collaborazione tra Smith e Steven Severin dei Siouxsie And The Banshees chiamata The Glove. Magari di tutto questo avremo modo di parlare in un prossimo post. – Matteo Aceto