Johnny Cash, “Unearthed”, 2003

johnny cash, unearthed, 2003, immagine pubblica blogDegli innumerevoli cofanetti multiciddì pubblicati dal 2000 ad oggi, e dei parecchi che in tutti questi anni ho avuto il piacere di collezionare, uno dei più godibili resta per me “Unearthed” di Johnny Cash, un quintuplo ciddì originariamente pubblicato dalla American Recordings di Rick Rubin pochi mesi dopo la morte del celebre artista americano, avvenuta il 12 settembre 2003.

“Unearthed”, a ben vedere, rappresenta quindi un vero e proprio testamento artistico: si tratta d’un cofanetto formato da quattro splendidi dischi di materiale inedito (nel 2003) registrato da Johnny Cash nel corso degli ultimi dieci anni di carriera (e quindi negli ultimi dieci anni di vita), quando appunto sotto l’egida di Rick Rubin il nostro visse una autentica rinascita artistica. C’è però, come detto sopra, un ulteriore quinto disco in “Unearthed”: si tratta d’un best of tratto dai quattro album che Cash aveva inciso per l’American, condensato in quindici magnifici brani che da Delia’s Gone giungono fino a quel capolavoro di commozione chiamato Hurt, cover dei Nine Inch Nails che meriterebbe un post a sé, passando per Bird On The Wire di Leonard Cohen, Rusty Cage di Chris Cornell, One degli U2 e The Man Comes Around dello stesso Cash.

Trattandosi sostanzialmente d’una raccolta di brani già editi e comunque di facile reperibilità, questo quinto disco di “Unearthed” – per quanto sensazionale all’ascolto – resta però il meno interessante dal punto di vista storico. Il vero tesoro che è stato dissotterrato (questo il significato letterale del titolo) dagli archivi American è infatti tutto nei primi quattro dischi del box: brani inediti, versioni alternative di altri già precedentemente editi, duetti (alcuni davvero d’antologia), esecuzioni per sole voce & chitarra (il solo Johnny Cash che canta imbracciando la sua chitarra basta già a fare spettacolo), esecuzioni con band di supporto (e in alcuni casi con tanto di orchestra), nuove versioni di brani che il nostro aveva registrato decenni prima, cover da brividi di canzoni altrui che in non pochi casi sono forse superiori alle versioni originali (come Pocahontas e Heart Of Gold di Neil Young, tanto per dirne qualcuna).

Ad ogni modo, il materiale di “Unearthed” è suddiviso in ordine tematico, con tanto di titolo per ogni disco; e così, se il primo si chiama “Who’s Gonna Cry” e contiene cinquanta minuti buoni d’un Cash in solitaria alle prese con canzoni come la tenebrosa Long Black Veil e la rivisitazione d’un originale d’annata chiamato No Earthly Good, il secondo si chiama “Trouble In Mind” e vede il nostro accompagnato da una schiera di musicisti davvero d’eccezione – Carl Perkins, i Red Hot Chili Peppers, Tom Petty e i suoi Heartbreakers, Willie Nelson e Waylon Jennings, amico di una vita, oltre a June Carter, ovvero l’amata signora Cash – e alle prese con pezzi come I’m A Drifter, I’m Moving On, Everybody’s Trying To Be My Baby e la stessa Trouble In Mind.

E se il terzo ciddì, chiamato “Redemption Songs”, offre – tra le altre – cover preziose come Father And Son, Wichita Lineman, Redemption Song e Gentle On My Mind e si avvale d’un altro gran cast di collaboratori (tra cui Joe Strummer, Nick Cave e Glen Campbell), il quarto ciddì, chiamato “My Mother’s Hymn Book” è un vero e proprio “nuovo” album di Johnny Cash, inedito in questo cofanetto al momento della sua prima pubblicazione, ovvero in quel 2003. Con brani molto corti, per un disco che comunque non arriva ai quaranta minuti, “My Mother’s Hymn Book” è un lavoro acustico formato da spiritual, inni e canti religiosi della tradizione americana, tutti reinterpretati dall’inconfondibile stile country di Johnny Cash.

Di recente, considerando il vigoroso revival del vinile, l’American ha ristampato tutto il box “Unearthed” in tale intramontabile formato discografico. Ci avevo fatto anche un pensierino, lo ammetto, ma il prezzo era abbastanza esagerato per portarmi a casa ciò che nel mio caso sarebbe un costoso doppione. Ve lo consiglio, tuttavia, se non avete nessuna edizione d’un box come questo “Unearthed” che, a mio modesto avviso, resta non solo un acquisto necessario per ogni appassionato di Johnny Cash ma anche un cofanetto facilmente apprezzabile da qualsiasi amante di buona e onesta musica pop-rock. – Matteo Aceto

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George Harrison, “Cloud Nine”, 1987

george harrison, cloud nine, immagine pubblica blogDopo un digiuno discografico di ben cinque anni, durante i quali aveva privilegiato i suoi interessi nell’industria cinematografica piuttosto che la carriera musicale, George Harrison tornò in grande stile sul finire del 1987, con quello che resta uno dei suoi album più belli: “Cloud Nine”.

Coadiuvato da amici musicisti del calibro di Ringo Starr, Eric ClaptonElton John e Jeff Lynne degli Electric Light Orchestra – che in qualità di produttore ha saputo tenere il tutto ben amalgamato – “Cloud Nine” è uno dei tre o quattro titoli del catalogo solista harrisoniano che si ascoltano piacevolmente dall’inizio alla fine, attraverso undici brani che ci mostrano un artista ancora in splendida forma e nuovamente a suo agio nella scena pop di quegli anni.

E così accanto a brani più smaccatamente pop-rock come That’s What It Takes, Fish On The SandThis Is Love e Wreck Of The Hesperus, troviamo un corposo rock blues come Cloud 9 (brano posto in apertura dell’album, con grande effetto), una rivisitazione della beatlesiana I Am The Walrus chiamata When We Was Fab, la fortunata cover di Got My Mind Set On You (un hit da primo posto in classifica in America), un’escursione nella musica etnica giapponese con Breath Away from Heaven, una stoccata alla deriva scandalistica dei mass-media con Devil’s Radio, e soprattutto due magnifiche ballate degne di “All Things Must Pass“, ovvero Just For Today e Someplace Else. Due brani, questi ultimi, che io ascolterei dalla mattina alla sera e che forse, da soli, giustificano l’acquisto di tutto l’album.

Trovo tuttora strabiliante che George Harrison non si sia prodigato, magari con lo stesso team, nel dare un seguito a “Cloud Nine” tra il 1988 e il 1989. L’anno dopo uscì sì un disco prodotto da Jeff Lynne e che vedeva la sua partecipazione, ma era il primo dei due capitoli discografici legati al progetto dei Traveling Wilburys, un supergruppo che annoverava – oltre a Harrison e allo stesso Lynne – anche Bob Dylan, Tom Petty e Roy Orbison. Questa però è una storia diversa che magari affronteremo in un altro post. – Matteo Aceto

I supergruppi

Traveling Wilburys George Harrison Bob DylanForse il termine non suscita simpatia ma, per supergruppo, s’intende comunemente una band formata da due o più componenti illustri provenienti da altre band. La storia del rock annovera diversi supergruppi ma la loro costituzione sembra aver preso piede soprattutto dagli anni Ottanta ad oggi. Vediamone alcuni, cercando di procedere in ordine cronologico.

Il titolo di primo supergruppo sembra spettare ai Blind Faith, composti da membri dei Cream (Eric Clapton e Ginger Baker) e dei Traffic (Steve Windood), formatisi e disciolti nel 1969 con un solo album all’attivo. Poi fu la volta della Plastic Ono Band, un gruppo che John Lennon e Yoko Ono formarono insieme a Eric Clapton e a George Harrison, sebbene svolgesse un’attività occasionale tra il 1969 e il 1970. Di supergruppi pop-rock nati negli anni Settanta non me ne sovviene nessuno, credo che comunque non ve ne siano stati molti, per cui passo agli anni Ottanta.

Nel 1982 nascono i Lords Of The New Church (componenti dei Dead Boys e dei Damned), nel 1983 nascono invece i Glove (membri dei Cure e dei Siouxsie And The Banshees), nel 1984 debuttano i Dalis Car (componenti dei Japan e dei Bauhaus) e i Chequered Past (membri dei Sex Pistols e dei Blondie), nel 1985 fanno la loro comparsa i Power Station (voce di Robert Palmer e musicisti dei Duran Duran e degli Chic), mentre nel 1986 è la volta dei GTR (membri dei Genesis e degli Yes) e ancora nel 1989 degli Electronic (componenti dei New Order, degli Smiths e dei Pet Shop Boys).

Nel 1988 hanno fatto la loro prima comparsa, con l’album “The Traveling Wilburys, Vol. 1”, i Traveling Wilburys (nella foto sopra), un super-supergruppo direi, giacché formato da George Harrison dei Beatles con Bob Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne della Electric Light Orchestra.

Passando agli anni Novanta, nel ’95 debuttano i Mad Season (formati da componenti di Alice In Chains e Pearl Jam), mentre l’anno dopo è la volta dei Neurotic Outsiders (membri dei Sex Pistols, dei Cult, dei Guns N’ Roses e dei Duran Duran). Di altri non ricordo…

Mi sembra più produttivo il decennio in corso: già nel 2000 debuttano i Damage Manual (componenti dei PiL, dei Killing Joke e dei Ministry), nel 2002 esordiscono con alcune canzoni distribuite in rete i Carbon/Silicon (componenti dei Clash e dei Sigue Sigue Sputnik) e con una distribuzione in grande stile, invece, debuttano gli Audioslave (musicisti dei Rage Against The Machine e voce dei Soundgarden). Nel 2004 è la volta dei Velvet Revolver (musicisti dei Guns N’ Roses e cantante degli Stone Temple Pilots), mentre il 2006 ha segnato il debutto ufficiale dei The Good, The Bad And The Queen (componenti dei Clash, dei Blur e dei Verve).

Nella storia della musica moderna si sono visti numerosi esempi di supergruppi costituiti apposta per un singolo evento o brano: è il caso dei Band Aid, che nel 1984 hanno pubblicato il singolo Do They Know It’s Christmas?, e degli U.S.A. For Africa, che l’anno dopo hanno pubblicato il singolo We Are The World. Entrambi nati per scopi benefici, i primi (di origine angloirlandese) sono nati dall’iniziativa di Bob Geldof e Midge Ure (che hanno coinvolto, tra i tanti, Sting, Phil Collins, Paul Weller, Paul Young, Boy George, i Duran Duran, gli U2 e George Michael), i secondi (americani) sono nati invece dall’iniziativa di Michael Jackson e Lionel Richie (coinvolgendo un cast stellare formato, fra i tanti, da Ray Charles, Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Bob Dylan, Tina Turner, Paul Simon e Diana Ross).

Poi ci sono dei supergruppi a ritroso, nel senso che dal gruppo originario, magari anche di successo, siano usciti fuori dei componenti di altrettanto (se non maggior) successo: mi vengono in mente i Genesis (che hanno ‘generato’ Peter Gabriel, Phil Collins ma anche i Mike & The Mechanics) e i Faces (nei quali hanno militato Ron Wood, dal ’75 ad oggi con i Rolling Stones, e Rod Stewart). Ma se ci pensiamo bene anche i Beatles sono stati un supergruppo a ritroso… in quale altra band si trovano Paul McCartney e John Lennon sotto lo stesso tetto?! Per giunta con un George Harrison che diventava sempre più bravo e che, giustamente, scalpitava per avere più voce in capitolo. Questa, però, è già materia per un altro post.