Genesis, “Abacab”, 1981

genesis, abacab, immagine pubblica blogErano anni che non sentivo la mia copia di “Abacab”, l’undicesimo album da studio dei Genesis, pubblicato originariamente nel settembre 1981. Di recente ho avuto modo di riascoltarmelo sia in auto e sia con lo stereo di casa e devo ammettere che, per quanto possa suonare musicalmente datato, resta ancora coinvolgente & godibile dopo tutti questi anni. Forti del loro primo numero uno nella classifica inglese degli album con “Duke” (marzo 1980), i Genesis bissarono quel clamoroso successo già l’anno successivo, con “Abacab” per l’appunto: da lì in poi sarà una costante per tutti gli album del gruppo e per molti di quelli pubblicati dai solisti, almeno fino ai primi anni Novanta

L’album inizia proprio con la coriacea Abacab, che resta probabilmente il più mirabile esempio della nuova strategia compositiva dei Genesis: ormai stabilmente un trio formato da Phil Collins (voce e batteria), Tony Banks (tastiere) e Mike Rutherford (basso e chitarra), i tre presero ad improvvisare tutti assieme in studio e quindi a vedere un po’ che cosa se ne potesse ricavare in termini di canzoni. Nel caso di Abacab, una composizione accreditata a tutti e tre i musicisti coinvolti, siamo alle prese con sette minuti buoni di esplosiva miscela a base di pop, rock, funk e progressive. Davvero notevole.

Il brano successivo, No Reply At All, introduce una vera sezione fiati, quella degli Earth Wind & Fire, in un brano dei Genesis accreditato come un’opera comune ma chiaramente pilotato da Phil Collins. Trovo magnifico il break a 2′ e 44” dall’inizio, dove il tempo rallenta notevolmente e Phil sfoggia al meglio quello che diverrà presto un suo marchio di fabbrica, ovvero una voce tagliente come un bisturi.

Composta dal solo Banks – e si sente – la successiva Me And Sarah Jane ripropone in sei minuti quella struttura progressive tanto cara ai nostri; progressive che in realtà non è mai stato messo completamente da parte nel corso della lunga vicenda artistica dei Genesis. La stessa cosa potrebbe dirsi d’un lungo e composito brano che compare più tardi, Dodo/Lurker, meno melodico di Sarah Jane ma più teatrale e heavy per quanto riguarda l’arrangiamento complessivo, forte anche di accenni reggae in alcune sezioni.

La serrata Keep It Dark, non troppo memorabile a onor del vero, vanta se non altro una prestazione vocale da parte di Collins davvero degna di nota. C’è chi comunque ritenne Keep It Dark, con quel suo ritmo irregolare e sincopato, talmente appetibile da farla pubblicare anche su singolo. E se con l’isterica Whodunnit? sprofondiamo al punto più basso di “Abacab” (ma voglio credere che l’inserimento d’un brano come questo, nato chiaramente da un’improvvisazione in sala d’incisione come gran parte dell’album, sia stata una mossa autoironica), con la canzone successiva siamo al cospetto non solo del punto più alto dell’album ma anche di una delle canzoni più belle dei Genesis. Stiamo parlando di Man On The Corner, una ballata scritta dal solo Collins e interpretata come solo lui sapeva fare, tant’è vero che sembra “rubata” al suo album “Face Value” (febbraio 1981). Molto bello il bridge che inizia a 2′ e 18” dall’inizio, direi toccante, mentre il testo sembra anticipare quello che sarà il tema della canzone più famosa di Phil, Another Day In Paradise, grande hit del 1989.

Accreditata al solo Rutherford, Like It Or Not mostra invece un’evidente sensibilità blues, caratteristica non troppo comune nel vasto canzoniere dei Genesis. E se l’introduzione quasi ambient di Another Record sembra promettente, la canzone vera e propria resta invece la più debole di tutto l’album. Non una grande chiusura, questa Another Record, ma forse non è stata messa lì a caso, tanto per portare il disco alla canonica lunghezza dei quaranta minuti quando il gruppo aveva ormai perso la sua ispirazione migliore. Il semplicistico titolo del brano (“un altro disco”, “un altro pezzo” ma anche “un’altra registrazione”) parrebbe indiziare in tal senso.

Autoprodotto dagli stessi Rutherford, Collins e Banks col sensibile supporto tecnico di Hugh Padgham (che dal successivo album in poi sarà accreditato come produttore effettivo), “Abacab” non è certo il disco perfetto dei Genesis ma resta quanto meno uno dei più solidi e divertenti sfornati dalla band inglese. E dopo trentasette anni non è certamente poco.

Vale la pena segnalare, infine, una peculiarità della copertina: certamente non bella (anzi, la si potrebbe forse includere tra QUESTE), è stata pubblicata con lo stesso schema grafico ma con colori diversi. Credo che ne esistano almeno quattro, probabilmente anche legate ai diversi formati via via disponibili dell’album (vinile, cassetta, ciddì, ciddì remaster, eccetera). La copertina della mia copia, una ristampa Virgin del 1994, debitamente remasterizzata, è appunto quella che compare nella foto sopra. Credo che sia comunque la più comune. – Matteo Aceto

PS: nel post ho volutamente inserito, oltre all’anno, anche il mese d’uscita degli album citati. E’ impressionante notare come Phil Collins, in soli diciotto mesi, abbia dominato da solo o con i Genesis la classifica del suo Paese con ben tre album. Non può essere semplicemente un caso e non può essere soltanto fortuna.

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Genesis, “And Then There Were Three”, 1978

Genesis And Then There Were Three“Di tutti i nostri album, And Then There Were Three è senza dubbio il più debole”. Parola del bassista/chitarrista Mike Rutherford, che liquida così il primo album dei Genesis ridotti a trio, dopo le dipartite di Peter Gabriel e Steve Hackett tra il 1975 e il ’77. In realtà, riascoltandolo in questi giorni, devo dire di aver trovato “And Then There Were Three” più gradevole e interessante di quanto ricordassi.

Certo, ascoltando tutti gli album dei Genesis, si sente che questo è un disco di transizione, un lavoro che segna il momento decisivo in cui non soltanto la formazione assume il suo numero definitivo di componenti (il fatidico tre indicato anche dal titolo), ma anche il momento in cui si passa dal progressive col quale la band si era fatta apprezzare fin dai primi anni a quel pop d’alta classifica che caratterizzerà la successiva carriera dei nostri.

Accanto a brani come Burning Rope e Deep In The Motherlode, riconducibili allo stile che i Genesis avevano adottato fino all’album precedente, in “And Then” figura infatti il pezzo più smaccatamente pop mai proposto dai Genesis fino a quel momento, ovvero la celebre Follow You Follow Me, emblematicamente accreditata a tutti i tre i membri superstiti. Successo da Top Ten nella classifica britannica, l’irresistibile Follow You Follow Me trascinerà “And Then There Were Three” fino al terzo posto delle charts, risultato più alto mai raggiunto allora per un album dei Genesis in patria, nonostante la “nuova onda” del punk si fosse abbattuta proprio su queste band di capelloni primi anni Settanta.

Ed è proprio con una risentita risposta alla new wave che “And Then” si apre, con la coriacea Down And Out, una canzone dove la voce urlante di Phil Collins e il maggior peso acquisito dal sound della sua batteria sembrano prefigurare brani quali In The Air Tonight (1981, del solo Collins) e Mama (1983, degli stessi Genesis). Non mancano comunque momenti più intimisti, rappresentati da due splendide ballate come Undertow e Many Too Many. Tuttavia è proprio ascoltando il lavoro alla chitarra di Rutherford in quest’ultima canzone che forse si avverte di più la mancanza d’un chitarrista solista del calibro di Steve Hackett.

La formazione a tre, se non altro, trarrà beneficio della dipartita di Hackett in fatto di concisione delle canzoni e in una maggior strutturazione delle parti strumentali. Parti più concise, per l’appunto, più immediate e più attinenti alla narrazione delle canzoni, la quale affronta soprattutto relazioni sentimentali e interpersonali, lasciandosi indietro i riferimenti alla narrativa fantastica tipo Tolkien che aveva caratterizzato le liriche dei nostri fino a poco tempo prima.

I “nuovi” Genesis, tuttavia, ci misero un po’ ad ingranare la marcia giusta: sempre secondo Mike Rutherford, l’album “era nato mettendo insieme i brani che Tony e io avevamo composto essenzialmente ognuno per conto proprio, mentre i Genesis erano partiti come un progetto collettivo”, ritenendo infine che tale album “avesse sofferto proprio della carenza di brani scritti insieme”. Su undici pezzi, infatti, quattro sono accreditati al solo Tony Banks (e sono i migliori dell’album) e tre al solo Rutherford, mentre Phil Collins ha collaborato collettivamente ai restanti quattro brani, tra cui la già citata Down And Out.

Non è probabilmente un caso che nel 1979 non uscì nessun nuovo album dei Genesis, con i tre impegnati in progetti solistici o paralleli al gruppo; il successo inaspettato del singolo Follow You Follow Me prima e dello stesso album dopo, evidentemente, hanno fatto capire ai nostri che se non altro avevano imboccato la strada giusta. Si trattava solo di affinare lo stile. Uno stile che si dimostrerà vincente per tutti gli anni Ottanta e per gran parte dei Novanta, con una sfilza di album da primo posto in classifica. Ma questa è già un’altra storia. – Matteo Aceto

(le dichiarazioni di Mike Rutherford sono tratte dal libro “Genesis Revelations”, la storia del gruppo narrata dai suoi stessi membri e curata da Philip Dodd)

C’erano cose che volevo dire…

Aspettando l’ispirazione necessaria a completare un terzetto di post che giace fra le bozze di Immagine Pubblica da fin troppo tempo, ecco un po’ di cose che volevo dire (beh, vabbè, scrivere…) senza occupare molto spazio per ognuna di esse. L’ordine è del tutto casuale & opinabile, i vari punti che seguono non hanno nessuna precisa connessione fra di loro… in generale si parla di musica, film & libri… ma tu guarda un po’!

I Genesis sono entrati nella Rock and Roll Hall of Fame… e ‘sti cazzi, potrebbe dire qualcuno. In effetti, anche a me, queste cerimonie, queste parate oserei dire, mi lasciano sempre abbastanza indifferente. Tuttavia, mi ha fatto piacere rivedere Steve Hackett assieme ai vecchi colleghi Tony Banks, Phil Collins e Mike Rutherford. Mancava il solito Peter Gabriel, impegnato coi preparativi del suo tour, così s’è detto… certo che una serata a mangiare & bere in un albergo di New York non è che lo avrebbe intralciato più di tanto. Un po’ stronzo, dài. A parte tutto, comunque, mi piacerebbe proprio sentire un nuovo disco realizzato dalla combinazione (chi c’è c’è, non me ne importa nulla) di questi signori.

Ho visto il tanto atteso “Alice In Wonderland” di Tim Burton, ovviamente in 3D… che dire… un po’ deludente. A volte manca proprio ritmo & tensione narrativa, il 3D non è che qui compie chissà quali prodigi, il tutto è un po’ troppo colorato per un film di Burton. Ok, è una produzione Disney, ma resta pur sempre un film di Tim Burton. Insomma, sì, mi aspettavo di più.

Dopo aver visto l’episodio Agenzia matrimoniale tratto dal film “L’amore in città”, ho finalmente visto TUTTE le opere filmiche girate da Federico Fellini! Mi ero promesso di approfondire alcune di queste singole visioni in specifici post ma ammetto di non averlo ancora fatto. E’ che, vedendo & rivedendo le opere di Fellini, scopro ogni volta qualcosa in più, per cui correrei il rischio di scrivere qualcosa che poi andrebbe corretto di lì a poco. Ci proverò comunque, probabilmente mi serve più tempo.

Ovviamente sono felicissimo per la doppietta Ferrari allo scorso GP del Bahrain, il primo della stagione. La prima vittoria di Fernando Alonso, al debutto in Ferrari. Sono soddisfazioni (soprattutto dopo un’annata deludente come quella del 2009)!

Ho sentito l’ultimo disco dei Gorillaz, “Plastic Beach”… non male… sono rimasto particolarmente colpito da Stylo, edito come primo singolo. Stavo addirittura per comprarmelo, “Plastic Beach”, l’avevo già preso e mi stavo perfino dirigendo alla cassa per pagare. Poi ho pensato ai quindici euro & novanta necessari all’acquisto e ho pensato subito dopo che erano troppi per un disco del genere. Ci ripenserò non appena lo metteranno nella categoria ‘nice price’.

La Beggars Banquet ha da poco ristampato alcuni suoi titoli in formato deluxe; le nuove edizioni si chiamano ‘Omnibus Edition’ e, fra quelle che ho potuto vedere nelle rivendite, vi sono alcuni dischi dei Bauhaus e alcuni dei Cult. In particolare, di questi ultimi è stata riproposta una versione di “Love” comprendente ben quattro ciddì: uno con l’album originale, uno coi brani aggiunti, uno con demo & rarità e infine un altro con un concerto dell’epoca. E il prezzo era molto interessante, ventitré euro per quattro dischi… pur avendo già il ciddì standard di “Love” ci farò un pensierino.

Sto faticosamente leggendo “Scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini: allora, il libro – che è una raccolta di articoli che il nostro scrisse fra il 1973 e il ’75 per varie testate editoriali – è assai illuminante e profetico. Una lettura piuttosto amara, avara però d’ironia e di leggerezza che mi ha fatto rallentare di molto lo scorrere dei miei occhi sulle pagine di “Scritti corsari”. Ho però l’intenzione di finirlo a breve.

Sono arrivato all’inquietante peso degli ottanta chilogrammi, un record per me. Mi sa che un ritorno in palestra (l’ultima volta risale al 2006) mi farebbe un gran bene…

Infine, per concludere, sono sicuro che non pubblicherò un altro post prima di Pasqua, per cui… ne approfitto ora per augurare buona Pasqua a tutti quelli che mi hanno seguito fin qui. Alla prossima, ciao! – Matteo Aceto

Genesis

genesisC’è stato un periodo, tra gli ultimi anni Novanta & i primi di questo decennio, in cui ho avuto un bisogno bruciante d’andarmi a sentire e/o comprare quanti più dischi dei Genesis potevo, sia che fossero cantati da Peter Gabriel, sia da Phil Collins, sia che facessero a meno di tutteddue, e sia che l’album in questione fosse un’opera solista. In tempi più recenti, tuttavia, ammetto d’aver ascoltato sempre meno i Genesis, seppur si siano ormai conquistati un posto ben soleggiato fra le mie passioni. Insomma, anche se oggi non li sento più con lo stesso fervore d’una volta, ho pur sempre tutti gli album da studio dei Genesis, gran parte di quelli dal vivo, un cofanetto, tutti i dischi di Phil Collins, quasi tutti quelli di Peter Gabriel, la prima raccolta dei Mike & The Mechanics, l’album eponimo dei GTR, e “Still” di Tony Banks. Ho inoltre avuto modo di sentire “The Geese & The Ghost” di Anthony Phillips, ho assistito a un concerto solista di Steve Hackett, anche se non ho mai ascoltato i Brand X. Tutti questi nomi rappresentano personaggi & vicende legati alla straordinaria storia dei Genesis, una storia che cercherò di ripercorrere a grandi linee in questo post, basandomi su un mio scritto precedente.

Siamo in Inghilterra, nella seconda metà dei Sessanta, quando due band di studenti si fondono per dar vita a un nuovo gruppo, i Genesis per l’appunto. La formazione è un quintetto composto da Peter Gabriel (voce, flauto), Tony Banks (tastiere varie, chitarre), Mike Rutherford (basso, chitarre), Anthony Phillips (chitarre assortite) e un batterista vacante, in questo caso John Silver (tanto per dirne uno). I primi singoli dei Genesis, That’s Me e The Silent Sun, sono pubblicati tra il ’67 e il ’68 – quando l’età media dei componenti del gruppo s’aggira sui diciotto anni – ma già nel ’69 la Decca pubblica un primo album, “From Genesis To Revelation”. E’ un disco ispirato ai temi biblici della creazione, forse un intento più ambizioso delle reali capacità creative/espressive dei nostri, che riescono comunque a proporre un lavoro apprezzabile.

Tra il ’69 e il ’70 avvengono i primi dei numerosi cambiamenti importanti nella storia dei Genesis: John Mayhew diventa il nuovo batterista, e il gruppo firma per la Charisma (in seguito inglobata dalla Virgin), la casa discografica alla quale resterà legata per sempre. Con la formazione rinvigorita e forte d’un contratto discografico più concreto, i Genesis approntano così un nuovo album, “Trespass”, edito nel 1970. Pur non essendo un capolavoro, il disco segna un importante passo avanti nello stile artistico dei nostri, che riescono pure a circondarsi d’una piccola schiera di fedeli ammiratori. Gli evidenti passi in avanti non impediscono però a uno dei pilastri compositivi, Anthony Phillips, d’abbandonare la band, seguìto qualche tempo dopo anche da Mayhew. Pare proprio che il povero Phillips – a disagio coi meccanismi della discografia e con una pur minima popolarità – abbia lasciato un’impronta ben più grande di quanto gli sia stato riconosciuto in anni successivi. Di recente, comunque, l’ombrosa figura di Anthony è tornata al centro dell’attenzione degli studiosi. Io stesso vorrei saperne di più, sperando quindi di poter approfondire il discorso con un post futuro.

Sulle prime l’abbandono del chitarrista principale è sconfortante ma i Genesis riescono ad andare avanti (sarà una costante…) arruolando in pochi mesi due nuovi membri: il batterista Phil Collins e il chitarrista Steve Hackett. Finalmente si completa quella che viene ricordata come la formazione classica dei Genesis – il quintetto Banks, Collins, Gabriel, Hackett & Rutherford – una formazione che, secondo il parere di molti critici & appassionati, ha dato vita ai dischi migliori della band. Abbiamo in effetti un magnifico poker d’album di ‘rock progressive’ che – da “Nursery Cryme” del ’71 fino a “The Lamb Lies Down On Broadway” del ’74 – ha ridefinito i canoni della musica inglese degli anni Settanta. In particolare, gli album “Foxtrot” (1972) e “Selling England By The Pound” (1973), sono due dei dischi più belli che io possa vantare nella mia collezione.

Tuttavia, all’apice d’una ricerca artistica, creativa & espressiva assolutamente degna di nota, Peter Gabriel, l’uomo immagine dei Genesis, il leader carismatico, lascia il gruppo nel ’75 con grande costernazione dei fan sempre più numerosi. Peter covava l’ambizione della strada solista, seguendo tutt’altro tipo di sperimentazioni sonore, anche se la sua defezione dai Genesis sembrava più una crisi personale (forse pure un esaurimento nervoso) che un reale contrasto in seno al gruppo. Gabriel resterà infatti sempre legato ai suoi amici (in particolare a Collins) tanto da riapparire – per quanto solo episodicamente – nella storia dei Genesis già nel 1978, e poi nel 1982 e ancora nei Novanta.

L’abbandono di Peter non segnò la fine del gruppo, come molti paventavano, anzi, i Genesis raggiunsero senza di lui l’apice del successo & della popolarità, proprio a partire dall’album “A Trick Of The Tail”, registrato all’indomani della defezione di Gabriel e fermatosi al 3° posto della classifica inglese, ovvero il più alto piazzamento per un album dei nostri fino a quel momento. Edito al principio del ’76, “A Trick Of The Tail” è un disco bellissimo, cantato dall’uomo che fino a quel momento della storia del gruppo aveva profittato ben poco del microfono principale: il batterista. A breve, Phil Collins dimostrò un talento naturale per l’istrionismo tipico dei frontmen, anche perché aiutato dalle sue esperienze recitative in gioventù. Oltre che, va da sè, dotato d’una voce molto bella & particolare che è diventata un marchio di fabbrica, sia per i dischi dei Genesis e sia per quelli (baciatissimi dal successo per tutti gli Ottanta) che pubblicherà a proprio nome.

Sempre nel ’76, il redivivo quartetto dei Genesis pubblica persino un nuovo album, “Wind & Wuthering”, un disco tanto malinconico quanto complesso (‘il nostro disco più complesso’ affermerà Collins), seguìto qualche tempo dopo da un ottimo doppio elleppì dal vivo, “Seconds Out” (1977). Tuttavia il quartetto ha una vita ancor più breve del quintetto, dato che il ’77 segna anche l’abbandono di Steve Hackett, che già nel ’75 – con l’album “Voyage Of The Acolyte” – aveva tentato un primo discorso solista, seppur coadiuvato da Rutherford e Collins (i quali, fra l’altro, suoneranno pure nell’ammirevole e già menzionato “The Geese & The Ghost” di Phillips). Per quanto il buon Steve sia sempre stato un ottimo chitarrista, il suo abbandono fu ancora meno sofferto di quello di Peter, tanto che il gruppo ci scherzò sopra: “And Then There Were Three”, e alla fine rimasero in tre, si chiama quel bel disco di transizione pubblicato in un anno, il 1978, in cui i vecchi eroi del rock inglese avevano dovuto reinventarsi in seguito all’esplosione del fenomeno punk che metteva proprio i ‘dinosauri’ della musica al centro delle sue critiche. Nonostante i cambiamenti interni & esterni, “And Then There Were Three” – spinto dall’irresistibile singolo Follow You, Follow Me – conquistò comunque piazzamenti importanti in Top Ten. E il meglio, dal punto di vista del successo, deveva ancora arrivare!

Nel 1980 esce il decimo album da studio dei Genesis, “Duke”, che vola al 1° posto della classifica inglese, così come fanno i successivi “Abacab” (1981), “Genesis” (1983), “Invisible Touch” (1986) e “We Can’t Dance” (1991). E tutto ciò mentre in quegli stessi anni Phil Collins riscuote un enorme successo da solista e Peter Gabriel diventa ormai un punto fermo per tutti gli appassionati di musica contemporanea. Il record arriva nell’86, in un momento in cui ben cinque dischi piazzati nella Top Ten inglese sono di derivazione genesisiana: “No Jacket Required” di Collins, l’eponimo primo album dei Mike & The Mechanics (band formata da Rutherford col bravissimo Paul Carrack), l’eponimo dei GTR (supergruppo costituito da Hackett con Steve Howe), “So” di Gabriel e, ovviamente, “Invisible Touch” al 1° posto.

Il resto è storia abbastanza recente: Phil annuncia nel ’95 d’aver lasciato i Genesis per mutuo consenso & senza rancore, mentre il gruppo – rivitalizzato da un nuovo, giovante cantante, lo scozzese Ray Wilson – pubblica nel ’97 l’album “Calling All Stations” (2° posto della classifica inglese). Nel ’99 esce l’antologia “Turn It On Again/The Hits”, dove Peter e Phil duettano in una nuova versione di Carpet Crawlers, mentre ai primi del 2007 viene annunciato con grande enfasi un tour mondiale che segna il ritorno del trio storico dei Genesis – Banks, Collins & Rutherford. Il tour ha grande successo, il gruppo non solo si toglie lo sfizio di partecipare al Live Earth ma si concede la bella soddisfazione di suonare al Circo Massimo di Roma al cospetto di cinquecentomila entusiastici appassionati, fra cui il sottoscritto.

Dal 2008, complice pure una grande operazione di riproposizione del catalogo storico della band, si torna a parlare con una certa insistenza d’una reunion dei Genesis che coinvolga anche Peter Gabriel e Steve Hackett. Per me i tempi sono ormai maturi e, sempre che la questione abbia un vero fondamento, ne vedremo/sentiremo presto delle belle! – Matteo Aceto

I concerti più memorabili

Paul McCartney live roma 2003Se in questo 2008 che ormai volge alla fine ho stabilito il mio record personale di dischi acquistati, non ho però assistito a nessun concerto di particolare rilevanza. Un po’ per mancanza di soldi, un altro po’ per pigrizia e molto per via del fatto che i miei artisti preferiti non hanno dato concerti in Italia. E così, sia come augurio per l’anno che verrà e sia per guardarmi indietro con piacevole nostalgia, ecco una breve lista dei concerti che più mi hanno emozionato negli ultimi anni, con qualche sintetico commento da parte del sottoscritto.

Eric Clapton: dal vivo a Pesaro nel marzo del 2001 con una band cazzutissima. Anche se ora ritengo il buon Eric un sopravvalutato, questo fu un concerto bellissimo e senza nessun calo di forma e/o stile.

The Cure: dal vivo a Roma nell’estate del 2002, per quasi tre ore di musica dove la band di Robert Smith ha spaziato senza risparmiarsi dalle canzoni di “Three Imaginary Boys” ai brani più recenti (per l’epoca) di “Bloodflowers”. Grandissimi!

Depeche Mode: dal vivo a Bologna nell’ottobre 2001, in un concerto esaltante del tour di “Exciter” che la sera prima aveva fatto tappa a Milano. Una band in formissima alle prese con un repertorio che ho cantato dalla prima all’ultima canzone. Apprezzai anche l’esibizione del gruppo di supporto, i Fad Gadget.

Genesis: dal vivo a Roma nell’estate 2007, in occasione del Telecomcerto gratuito del 14 luglio che ha attirato ben 500mila persone. La formazione includeva tre membri originali – Phil Collins, Tony Banks e Mike Rutherford – più due storici collaboratori, Daryl Stuermer (chitarra) e Chester Thompson (batteria). Uno dei più maestosi spettacoli che ho avuto il privilegio di gustare.

Steve Hackett: dal vivo a Pescara nel marzo 2007, fu un graditissimo aperitivo acustico prima del grande concerto romano dei Genesis. Ne ho parlato QUI.

Scott Henderson: dal vivo a Orsogna (Chieti) nell’agosto del 2006 vidi in azione uno dei più abili e impressionanti chitarristi che io abbia mai avuto il piacere d’ascoltare. Eccezionalmente bravi anche i due musicisti che quella sera accompagnarono Scott sul palco: Kirk Covington alla batteria e John Humphrey al basso.

Paul McCartney: dal vivo a Roma, lungo il suggestivo sfondo dei Fori Imperiali, nel maggio del 2003, in occasione del primo Telecomcerto gratuito (nella foto sopra). Questo è stato forse il concerto più emozionante della mia vita, se la batte alla pari con un altro che vedremo fra poco…

The Mission: dal vivo a Roma nell’autunno del 2005, in una formazione che purtroppo includeva il solo Wayne Hussey fra i componenti storici della band inglese; la scelta dei pezzi e la loro esecuzione furono comunque memorabili.

Peter Murphy: dal vivo a Roma nell’estate 2005, in uno dei posti peggiori che io abbia mai visitato per ascoltare della musica dal vivo. Ma l’emozione di aver visto cantare a un metro da me il leader dei Bauhaus, il piacere di avergli stretto la mano, e i suoi autografi sulle copertine dei miei dischi hanno ben ripagato i soldi spesi per il biglietto e il viaggio.

The Police: dal vivo a Torino nell’ottobre del 2007… strepitosissimi! Ne ho parlato abbondantemente QUI.

Prince: dal vivo a Milano il 31 ottobre 2002 per un concertone che riportava il folletto di Minneapolis in terra italiana dopo dieci anni buoni d’assenza, stavolta per promuovere l’album “The Rainbow Children”. Ci andai da solo, contro tutti & tutto, e ne valse la pena alla grandissima, fosse solo per il fatto di averlo visto suonare e cantare Purple Rain a pochi metri da me!

David Sylvian: dal vivo a Roma nel settembre 2007 in uno dei posti più splendidi dove ho potuto ascoltare della musica live, l’Auditorium della Conciliazione, a pochi passi dal Cupolone. Tanti i pezzi tratti dal recente “Snow Borne Sorrow” (2005) ma anche tante piacevoli escursioni nel suo passato solista. Ospite d’eccezione, alla batteria, il fratello Steve Jansen.

Roger Waters: dal vivo a Roma nel giugno 2002 con una band grandissima di musicisti e coriste. Tre ore in compagnia di una leggenda alle prese con delle canzoni che sono entrate nella storia. Ho detto tutto. Permettetemi di chiudere questo post su toni di nostalgia dolceamara… mi sento fortunatissimo ad aver avuto l’opportunità di applaudire da vicino tutti questi grossi calibri, rimpiango però di non aver mai visto dal vivo Miles Davis, Freddie Mercury e i Clash. – Matteo Aceto

Genesis, “Foxtrot”, 1972

genesis-foxtrot-immagine-pubblicaQuarto album da studio dei Genesis, “Foxtrot” è considerato da molti appassionati non solo il loro primo, vero capolavoro ma anche il disco migliore della loro carriera (io comunque lo metterei alla pari col successivo “Selling England By The Pound”). Prima d’addentrarci in una recensione semiseria, però, è forse il caso d’accennare alla formazione della band inglese che lo ha realizzato: Tony Banks (organo, mellotron, piano, chitarra a 12 corde, voci), Steve Hackett (chitarra elettrica, chitarre acustiche a 6 e 12 corde), Phil Collins (batteria, percussioni, voci), Peter Gabriel (voce principale, flauto, percussioni, oboe) e Mike Rutherford (basso, chitarra a 12 corde, voci, violoncello).

“Foxtrot” inizia con Watcher Of The Skies, pulsante e lungo brano la cui introduzione per organo e sintetizzatore, piuttosto dolente, sembra riecheggiare le composizioni di J. S. Bach. Segue la stupenda ballata pianistica di Time Table, canzone fra le più melodiche dell’era Gabriel dei Genesis; una gemma che avrebbe dovuto meritare molto più spazio nelle raccolte antologiche del gruppo.

Get ‘Em Out By Friday è un rocambolesco brano prossimo ai nove minuti: in puro stile progressive, Get ‘Em Out cambia più volte tempo e melodia, ad ennesima dimostrazione della grande versatilità di questa band. Il pezzo successivo è Can-Utility And The Coastliners, caratterizzato da un’altra memorabile melodia: sicuramente uno dei brani migliori dei Genesis alle prese col genere progressive, vede un arrangiamento perfettamente equilibrato fra parti di chitarra e di tastiera. Segue quindi Horizons, un delizioso brano strumentale, una gemma acustica che dura poco più d’un minuto e mezzo e che chiude splendidamente la prima facciata dell’elleppì originale di “Foxtrot”.

Sulla seconda facciata troviamo invece un solo brano, Supper’s Ready, una straordinaria suite della durata di ventitré minuti. Questo brano da antologia è a sua volta diviso in sette parti, tutte collegate fra loro: (i) la prima, Lover’s Leap, è quella che più apprezzo, con la voce più volte raddoppiata di Peter semplicemente fantastica, con quell’arpeggio di chitarra continuo che sorregge un andamento dolce e sognante; (ii) The Guaranteed Eternal Sanctuary Man è leggermente più ritmata & epica, con una melodia che sembra portarci lentamente alla deriva; sul finale c’è una bellissima ripresa strumentale del tema di Lover’s Leap, eseguita col flauto; (iii) Ikhnaton And Itsacon And Their Band Of Merry Men è invece assai più movimentata, anche se il tutto sembra fungere da introduzione per la parte successiva, (iv) How Dare I Be So Beautiful?, un brano lento e dolente registrato più basso (sembra quasi che Peter Gabriel stia cantando una confessione); (v) e se Willow Farm è caratterizzata da uno stile vigoroso & alquanto beatlesiano, (vi) Apocalypse In 9/8 presenta invece un ritmo più epico (soprattutto nella sezione cantata) e saltellante (specie nell’interludio strumentale centrale), finché, con uno scampanellio vagamente natalizio, viene ripreso per la seconda volta il tema iniziale di Lover’s Leap; (vii) il tutto è infine legato alla settima parte della suite, As Sure As Eggs Is Eggs (Aching Men’s Feet), a sua volta un’epica ripresa della seconda parte.

In complesso, come detto, Supper’s Ready presenta ventitré minuti di grande abilità tecnica & inventiva melodica che contribuiscono a fare di questo “Foxtrot” uno dei più fulgidi ed originali esempi dell’era progressive del rock inglese.