Perché dopo tanti anni sono tornato a scrivere un blog? La morte di David Bowie. Ebbene sì, il motivo scatenante è stato proprio quello. Una morte che ha sorpreso e addolorato il mondo intero, e di cui chiunque si è trovato a parlare, fosse anche solo per un minuto. Mi sono detto: e se avevo ancora il vecchio blog? Che cosa avrei scritto io per omaggiare David Bowie, da sempre uno dei miei artisti preferiti?
Pensa e ripensa, mentalmente avevo già scritto un post ma… non avevo più un blog! Pensa e ripensa ancora, e finalmente, lo scorso 2 febbraio, ho deciso di fare questo “grande passo”, l’apertura di questo nuovo blog. Ora, se volessi riprendere il discorso interrotto quattro anni fa nelle pagine del mio vecchio blog, un titolo come <> dovrebbe lasciar pensare che io mi sia cimentato con la recensione di “Blackstar”, l’ultimo album – il testamento artistico, purtroppo – del nostro. Ma non è esattamente così.
La sera dello scorso 8 gennaio, giorno del sessantanovesimo compleanno di David, mi trovavo “casualmente” in un centro commerciale; “sfortunatamente” sono capitato nell’annesso negozio di dischi; per “pura coincidenza” mi sono trovato davanti l’edizione in vinile di “Blackstar”, fresco di stampa, giunto nelle rivendite in quello stesso 8 gennaio; “senza accorgermene” ed ero già alla cassa per pagare. Era la prima volta che compravo un nuovo album di Bowie, appena uscito, dai tempi di “Heathen” (2002): dalle prime recensioni d’anteprima che leggevo sui media, m’era parso di capire che l’acquisto valeva bene i soldi spesi e che stavolta tornava in gioco la sperimentazione, che è un qualcosa che David Bowie ha sempre fatto molto bene. E poi il videoclip della stessa Blackstar (che a quel punto non avevo ancora visto) stava già facendo parlare di sé, anche per via dell’insolita durata, prossima ai dieci minuti. Insomma, la mia curiosità era tanta.
Una volta a casa, tuttavia, non sono riuscito ad ascoltare la mia copia di “Blackstar”, ma soltanto a scartarlo e ad apprezzarne la veste grafica (tutto nero, con foto e scritte lucide, tutto molto ben concepito). Per l’ascolto ho dovuto attendere il giorno dopo, e non ne sono rimasto deluso. Due considerazioni però ho dovuto subito fare: il sound dell’album – composto di sole sette canzoni – non ha niente a che vedere col jazz, come appunto dicevano le prime recensioni d’anteprima (a volte mi chiedo se quelli che affibbiano l’etichetta d’un preciso genere musicale a un disco sappiano effettivamente di cosa stiano parlando); il sound dell’album è vagamente retro, un po’ anni Ottanta, ecco.
Insomma, “Blackstar” non è particolarmente sperimentale ma soprattutto non è affatto jazzistico. E’ un disco cupo, questo sì, un po’ opprimente, come lo erano certe atmosfere di “Low” e “Heroes”, i capolavori berlinesi del 1977; è comunque un disco bello (in particolare, mi piace il modo in cui il sassofono suona e si incastra tra gli altri strumenti), un disco che molto probabilmente è capace di crescere – per così dire – con gli ascolti successivi.
E si arriva così alla fatidica mattina del 10 gennaio 2016: ero al lavoro già da qualche ora, decido di accendere un po’ la radio, più che altro per sentire le notizie del giorno ma… la notizia del giorno è una sola, il mondo sembra essersi fermato: è morto David Bowie, stava male da tempo.
Dispiacere e stupore fanno immediatamente capolino nella mia mente: ma come? Ha appena pubblicato un disco nel giorno del suo compleanno e adesso è morto?! Stava male e si è preso la briga non solo di incidere un nuovo album ma anche di girare due nuovi video, di cui uno da dieci minuti??!! Sono stupito più per queste ultime considerazioni – che cioè si fosse già rimesso all’opera dopo soli tre anni di distanza dalla pubblicazione del suo album precedente, “The Next Day”, mentre combatteva contro un tumore – che più perché fosse venuto a mancare.
Erano infatti anni che si speculava circa le condizioni non ottimali del celeberrimo cantante inglese: nel 2004 ebbe un infarto che di fatto lo convinse a ritirarsi dall’attività concertistica. Dopo l’album “Reality” del 2003 passarono ben dieci anni per vedere nei negozi il disco successivo, il già citato “The Next Day”, e in quei dieci anni si disse di tutto a proposito della salute del nostro. Tuttavia, il fatto che David fosse tornato sulle scene con un nuovo progetto discografico chiamato “Blackstar” in tempi relativamente brevi, lasciava ben sperare in un suo ritorno in grande stile – in fondo sessantanove anni non sono poi tantissimi. Il peggio dev’essere passato, pensai con sollievo.
Invece no, come tutti sappiamo, il peggio è arrivato a soli due giorni dall’uscita di “Blackstar”, suscitando profondo cordoglio in tutto il mondo, come pochissimi altri personaggi del mondo del rock erano riusciti a fare. Quel dannato 10 gennaio fu per me una giornataccia, anche sul lavoro, e tornai a casa completamente svuotato.
Mi sembrava strano ascoltare “Blackstar” in quei giorni, all’indomani della scomparsa dell’artista che lo aveva appena fatto pubblicare: ora era fin troppo facile capire a cosa alludevano il titolo del disco, i videoclip di Blackstar e Lazarus (l’uno più inquietante dell’altro), tutto quel nero per la grafica, per non dire i testi delle canzoni. Se ci penso, mi vengono i brividi.
Al momento, ho ascoltato “Blackstar” soltanto due volte – troppo poche per cimentarmi con una recensione vera e propria – una all’indomani della pubblicazione, quando David era ancora in vita, una all’indomani della morte dell’artista stesso. Due diversi stati d’animo, come potete bene capire, col secondo che mi ha lasciato l’amaro in bocca e la sgradevole sensazione che per qualche tempo non potrò più ascoltare un disco come “Blackstar”. Al momento non ne ho alcuna voglia, lo dico in tutta sincerità, per quanto l’ultimo brano, I Can’t Give Everything Away, continua a risuonarmi in testa dopo soli due ascolti.
Voglio soltanto fare un’ultima considerazione: David Bowie è stato artista fino alla fine. Da quanto è trapelato nelle settimane successive alla sua morte, il nostro ha lottato contro il cancro per diciotto mesi, per cui presumo che abbia concepito e realizzato un lavoro come “Blackstar” nel bel mezzo di tale gravissima malattia. Avrebbe avuto tutto il diritto di starsene al letto, in qualche clinica di lusso, per vedere di guadagnare magari del tempo prezioso, ma invece no. David Bowie ha preso carta e penna (o forse un semplice notebook) per scrivere dei testi, ha strimpellato accordi e sequenze di note al piano o alla chitarra, ha quindi composto delle melodie, delle nuove canzoni, ha chiamato il suo produttore storico, Tony Visconti, ha organizzato delle sedute di registrazione, ha convocato in studio dei musicisti, ha perfino interpretato due nuovi videoclip! David Bowie andava incontro alla morte traendo ispirazione da quello stesso trapasso che si apprestava ad affrontare. Artista totale, artista fino alla fine. – Matteo Aceto