Bob Marley & The Wailers, “Exodus”, 1977

bob-marley-exodus-the-wailersSe Bob Marley è (stato) il più grande artista reggae e “Exodus” è ritenuto il suo album più bello & importante, allora potremmo dire che “Exodus” è il più grande album reggae mai pubblicato. Un disco uscito oltre trentanni fa, eppure sempre attuale, freschissimo, divertente da ascoltare per quanto riguarda la musica, illuminante per quanto riguarda la parte testuale delle dieci canzoni incluse. Un altro capolavoro, che Dio benedica la buona musica!

Il genere di “Exodus” è ovviamente il reggae, dieci perle raggae dal tempo medio (alcune più lente in un cullante saltellare, altre più veloci in una morbida danza), mentre la maggior parte dei testi è intrisa di critica sociale e di spiritualità rastafari. Non mancano appassionate canzoni d’amore, alcune delle quali davvero romantiche; su tutto spiccano comunque toni ottimistici di speranza nel futuro.

“Exodus”, scritto da Bob Marley ma suonato e prodotto coi fidi Wailers – qui formati da Junior Marvin, Aston Barrett, Carlton Barrett, Tyrone Downie, Alvin Patterson e le I Threes (le coriste, fra le quali la moglie del nostro, Rita Marley) – è stato registrato nella nativa Giamaica e a Londra fra il gennaio e l’aprile del ’77.

Belle e coinvolgenti tutte le canzoni di “Exodus”, dai reggae dolenti di Natural Mystic e Guiltiness alla irresistibile coralità di The Heathen e So Much Things To Say, passando per la celeberrima Jamming, uno dei brani più famosi del buon Bob. Le canzoni che più preferisco sono però la rilassata & rilassante Waiting In Vain, che col suo cullante ritmo resta da anni una gioia per le mie orecchie, Turn Your Lights Down Low, una romantica ballata in chiave giamaicana dalla grande atmosfera (bel testo, ottima musica… penso che questa sia una delle canzoni d’amore più belle mai pubblicate), la superottimistica Three Little Birds, che resta una delle creature marleyane più deliziose (il ritornello è inoltre semplicissimo… non preoccuparti di nulla, perché ogni piccola cosa andrà a posto. Un po’ troppo ottimistica, forse, ma in tempi cinici & disperati come questi una canzone come Three Little Birds resta una refrigerante goccia di pura innocenza & speranza) ma soprattutto l’omonima Exodus, forse il pezzo più imponente nel catalogo di Bob Marley: sette minuti e quaranta secondi di travolgente reggae/funk dove tutto è perfetto (testo, arrangiamento, strumentazione, voce solista, cori & controcanti, produzione, effetti sonori, mix…) & assolutamente coinvolgente. Exodus è un’epica marcia reggae la cui sola presenza giustificherebbe l’acquisto dell’album omonimo.

Note a parte per la conclusiva One Love/People Get Ready, una canzone che per me rappresenta un mistero: accreditata a Bob per quanto riguarda One Love e a Curtis Mayfield per quanto riguarda la sua celebre People Get Ready; solo che in questa versione di “Exodus” non c’è traccia della melodia mayfildiana… se qualcuno conoscesse la storia di questo pezzo sarebbe una graditissima aggiunta fra gli eventuali commenti.

Nel 2001 tutto il catalogo storico di Bob Marley e dei Wailers è stato ristampato con ogni album arricchito da brani aggiunti: in questo caso abbiamo le due lunghe canzoni che componevano rispettivamente le facciate A e B del singolo in 12″ di Jamming. Si tratta della versione estesa – e abbastanza remixata – della stessa Jamming e della danzereccia Punky Reggae Party, sorta di benedizione di Marley nei confronti del nascente (all’epoca) movimento punk inglese, tanto da citare direttamente nel testo band quali The Damned, The Jam e The Clash. Prodotta dal celebre Lee Perry (che ha lavorato anche per gli stessi Clash), Punky Reggae Party non è molto in linea col contenuto originale di “Exodus” ma è pur sempre un bel reggae.

Nel 2007 infine, per celebrare i trentanni di questo disco, è stata stampata una versione in formato earbook di “Exodus”: si tratta d’un bel librone delle dimensioni d’un elleppì con incluso l’album originale in ciddì. Non conosco il contenuto di questo progetto editorialdiscografico (infatti viene venduto anche nelle librerie) ma penso che sia un lavoro ben fatto e che merita l’acquisto da parte del fan più accanito.

Col tempo ho avuto modo d’ascoltarmi tutti gli album da studio di Bob Marley e devo dire che questo “Exodus” resta sempre il mio preferito, l’unico dal quale non mi separerei mai. – Matteo Aceto

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The Clash, “The Clash”, 1977

the-clash-primo-album-omonimoQuesto 2007 ha segnato importanti anniversari discografici, celebrati chi più chi meno dalla stampa specializzata (e con molta più umiltà & meno pretese dal sottoscritto): “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) dei Beatles, “Velvet Underground & Nico” (1967) dei Velvet Underground, “The Doors” (1967) dei Doors, “The Piper At The Gates Of Dawn” (1967) dei Pink Floyd, ma anche “Exodus” (1977) di Bob Marley & The Wailers, “Never Mind The Bollocks” (1977) dei Sex Pistols, la colonna sonora di “Saturday Night Fever” (1977, quella coi pezzi dei Bee Gees per intenderci), ma pure “Appetite For Destruction” (1987) dei Guns N’ Roses.

Io a questa lista aggiungerei anche “Low” e “Heroes” di David Bowie, “The Idiot” di Iggy Pop, “News Of The World” (1977) dei Queen (è quel disco che contiene We Are The Champions e We Will Rock You, avete presente?), “The Clash” (1977) dei Clash, “…Nothing Like The Sun” (1987) di Sting, “Sign ‘O’ The Times” (1987) di Prince, e “Bad” (1987) di Michael Jackson: alcuni di essi li ho già recensiti alla bellemmeglio su questo blog, di altri mi piacerebbe parlare in post futuri, mentre di “The Clash” parlerò subito, riciclando idee già scritte in un mio vecchio post.

“The Clash”, album di debutto dei Clash, fu il secondo grande album punk a vedere la luce in Gran Bretagna, nel corso del 1977, l’anno che sancì l’affermarsi nelle classifiche riservate al pop-rock di una nuova & ruvida sonorità, il punk per l’appunto. Iniziarono a febbraio i Damned di Brian James e Captain Sensible con l’album “Damned Damned Damned”, ad aprile seguirono i nostri con “The Clash” e completarono la trilogia di classici punk i Sex Pistols, col fondamentale “Never Mind The Bollocks”, pubblicato a novembre, anche se era pronto già da diversi mesi prima.

A partire dal 12 febbraio 1977, nel corso di tre lunghi weekend giovedì-domenica, i Clash e il produttore Mickey Foote (lo stesso tecnico del suono che accompagnava la band nei concerti) sono impegnati per l’incisione del loro album d’esordio agli studi londinesi della CBS . L’atteggiamento assunto dai Clash nei confronti del personale in studio è di aperta sfida: all’epoca la CBS era la casa discografica più grande al mondo e i Clash la vedevano come una sorta di multinazionale alla quale opporsi per non farsi fagocitare. Joe Strummer preferisce incidere le sue parti vocali quando il resto del gruppo non c’è: canta rivolto contro il muro e al contempo suona la sua chitarra ritmica. Evidentemente, secondo lui, ciò era il solo modo possibile per ricreare in studio una sua performance dal vivo; tuttavia la sua voce non è nelle condizioni ottimali, dato che Joe accusava dei noduli alla gola.

Pare, inoltre, che molto del suo contributo strumentale sia stato sostituito a sua insaputa dalla chitarra di Mick Jones, che è il componente dei Clash che, in fin dei conti, più si adatta all’ottica lavorativa in studio: utilizza tre diverse chitarre e collabora col fonico per la resa ottimale dei suoni. Mick dirige anche le operazioni dei compagni: in particolare, insegna a Paul Simonon quali parti di basso deve eseguire… Paul, infatti, aveva le note disegnate sulla tastiera del suo strumento! Contrariamente ad alcune dicerie, però, Simonon eseguì effettivamente le sue parti di basso. C’è da dire, comunque, che il suono di basso che si ascolta per tutto il disco è piuttosto pronunciato e contribuisce enormemente alla definizione del sound complessivo in “The Clash”.

Terry Chimes, già ufficialmente fuori dai Clash, è stato il membro della band meno collaborativo: s’è limitato ad eseguire le istruzioni impartite dagli altri & a suonare le sue parti di batteria correttamente. Si discute, invece, sull’effettivo ruolo del produttore Mickey Foote: anche se Mick Jones abbia potuto svolgere un ruolo di produttore di fatto, a Foote si deve riconoscere quantomeno l’importante ruolo da lui assunto di cuscinetto tra l’aggressività dei Clash in studio e i tecnici della casa discografica, per la prima volta alle prese con la musica punk e i suoi stilemi (ricordiamoci che a quei tempi la CBS andava forte con gente come gli ABBA…).

Per quanto riguarda le singole canzoni, invece…

1) L’iniziale Janie Jones è dedicata ad una nota ‘signora’ londinese: è un brano carico di ruvida urgenza, cantato perlopiù coralmente, mentre negli ultimi ventitré secondi esplode la sola voce di Mick.

2) Remote Control, un duetto tra Mick e Joe, è il brano più convenzionalmente rock dell’album: perciò è stato scelto come secondo singolo dalla CBS (ad insaputa dei Clash che s’incazzarono parecchio).

3) I’m So Bored With The U.S.A. parla dell’americanizzazione della Gran Bretagna e dei suoi costumi; originariamente la canzone era intitolata I’m So Bored With You ed in effetti è questa la frase che cantano Mick e Paul nei cori.

4) La versione di White Riot contenuta nel disco risulta più grezza all’ascolto rispetto a quella pubblicata su singolo qualche tempo prima: è diversa sia nella strumentazione e sia nel cantato, inoltre non prevede gli effetti (sirena, vetro infranto, allarme antincendio, ecc.) usati per il singolo.

5) Hate & War è un brano cantato perlopiù da Mick e cita l’opposto dell’ideale hippy di ‘peace & love’: la situazione non è certamente vista come positiva, bensì viene criticata come segno dei tempi che rende più difficile la vita dei ragazzi.

6) Tranne Police & Thieves (che vedremo fra poco), tutte le canzoni di questo disco sono accreditate alla coppia Strummer/Jones, mentre la breve & coinvolgente What’s My Name? reca un credito di composizione anche per Keith Levene, chitarrista nei Clash fino al settembre ’76. Intervistato in anni recenti, Levene ha affermato che, pur non piacendogli l’album, avrebbe dovuto spettargli lo status di coautore con Strummer & Jones in tutte le canzoni contenute in “The Clash”. Chissà…

7) Deny presenta una struttura più complessa: il tempo cambia più volte dopo il ritornello, mentre a poco più di un minuto dalla fine la voce di Mick s’intreccia al canto rabbioso di Joe.

8) London’s Burning è uno dei pezzi più rappresentativi dell’album: la dichiarazione iniziale di Strummer che sembra asserire un dato di fatto (e il rullare dei tamburi rafforza il tutto), mentre il ritornello corale ad opera di Mick e Paul, l’assolo di chitarra supportato dalle frasi gridate di Joe, e il pestare della batteria di Terry rendono il finale di questa canzone davvero esplosivo.

9) Career Opportunities presenta una complessità atipica per gli standard punk: questo come altri brani dell’album fanno intendere chiaramente che i Clash hanno (e avranno) molto più da dire rispetto ai loro colleghi e rivali musicali.

10) Cheat, a mio parere, è il brano meno riuscito del disco: le idee ci sono (come l’effetto di phaser sul finale) ma evidentemente i tempi ristretti di lavoro e la difficoltà dei Clash ad ambientarsi in un ambiente non familiare come quello dei CBS Studios hanno fatto la loro parte.

11) Protex Blue è un puro brano punk, una canzone ricca di vitalità dove Mick canta uno dei primi testi che ha scritto.

12) Eccoci quindi alla cover di Police & Thieves, un pezzo reggae di Junior Marvin: seppur aggiunta per dare più corpo all’album (dura la bellezza di sei minuti), tutti i Clash si dimostrarono entusiasti del risultato finale, in particolare colpisce l’efficace arrangiamento per due chitarre che Mick s’è inventato.

13-14) 48 Hours presenta un grande coro a tre voci e un assolo di chitarra piuttosto rock ‘n’ roll, mentre Garageland è il malinconico brano di chiusura con tanto di armonica a bocca; il testo è una risposta al famigerato articolo di chi voleva rispedire i Clash al garage lasciando il motore acceso.
“The Clash” raggiunse piuttosto in fretta il 12° posto della classifica britannica: trattandosi d’un nuovo sound proposto da una nuova band, il risultato è sbalorditivo e la dice lunga sulla voglia di cambiamento che i giovani inglesi del tempo cercavano nel panorama musicale.

E per finire, alcune curiosità…
La strategia promozionale per “The Clash” era congiunta al magazine New Musical Express: le prime 10mila copie del disco contenevano un adesivo rosso da applicare a un tagliando pubblicato sul numero di aprile di NME, così da ottenere gratuitamente il singolo Capital Radio.
“The Clash” è stato pubblicato negli USA dalla Epic il 23 luglio 1979 con una scaletta differente: alle prime copie era anche allegato il singolo Gates Of The West / Groovy Times. Poche altre band sono state generose quanto i Clash.

– Matteo Aceto

Bob Marley & The Wailers, “Redemption Song”, 1980

bob-marley-wailers-uprisingSemplicissima, soltanto una voce & una chitarra come accompagnamento, eppure una canzone struggente & sincera come poche. Una canzone immortale, ecco. Con Redemption Song, credo che Bob Marley si sia consegnato definitivamente alla leggenda.

Per quanto mi riguarda, la frase del testo di questa canzone che trovo più suggestiva è ‘emancipate yourself from mental slavery’…

Redemption Song
fa parte dell’avvincente album “Uprising” (1980), di Bob Marley & The Wailers, l’ultimo disco registrato dal re del reggae prima della valanga di pubblicazioni postume che è seguita. – Matteo Aceto

The Police… dal vivo a Torino!

the-police-2007-stewart-copeland-sting-andy-summersSono da sempre un fan di Sting e dei Police. Non avevo mai visto il mio idolo dal vivo ma fino al dicembre del 2006 non avrei mai creduto che la prima volta che avrei visto Sting in azione sul palco sarebbe stata coi due compari storici, ovvero Stewart Copeland e Andy Summers, vale a dire The Police! Se me l’avessero predetto anni addietro mi sarei fatte sonore risate… e invece no, ho davvero visto i Police dal vivo, cazzo, allo Stadio delle Alpi di Torino, lo scorso 2 ottobre! Per giunta nel giorno del compleanno di Sting… beh, mi sento abbondantemente ripagato da tanta attesa: detto fra noi, ho assistito ad uno dei concerti più entusiasmanti della mia vita (forse IL concerto più entusiasmante della mia vita… ci sto riflettendo in questi giorni…). Da dove cominciare? Dal viaggio? Vediamo un po’…

La mia ragazza Antonella, mio fratello Luca & il sottoscritto partiamo da Pescara (ancora un po’ assonnati) alle sette del mattino, con un bus a due piani, appositamente organizzato per il concerto. Il viaggio scorre tranquillo, anche perché intervallato da alcuni piacevoli dvd come ‘Live 8’ (lo storico megaconcertone mondiale svoltosi nel luglio 2005) e ‘Vieni avanti, cretino!’ di Lino Banfi e soprattutto dalle soste in Autogrill. Tuttavia il viaggio è lungo e appena entrati in Piemonte l’attesa inizia a farsi palpabile: in effetti nessuno pare farcela più a stare sull’autobus ma ormai manca poco, Torino (dove non ero mai stato) non può essere molto lontana ormai.

L’arrivo in città inizia ad elettrizzarci: vediamo alcune direzioni consigliate per raggiungere lo stadio e gente con addosso le magliette dei Police! Cazzo, ci siamo, penso io. Fermiamo proprio davanti allo stadio, sono all’incirca le sei del pomeriggio, dopodiché, tutti contenti, Luca, Anto & io ci dirigiamo verso il nostro ingresso, la curva nord. Con mio sollievo è una splendida giornata, fa caldo e c’è un botto di gente… in giro sento un po’ tutti i dialetti d’Italia, specie quello lombardo. Una volta controllati & staccati i nostri biglietti dagli addetti ai lavori, mettiamo finalmente piede nello stadio, prima però ho una missione da compiere: devo acquistare il tour book, che per fortuna non costa esageratamente, giusto quindici carte.

Entriamo nello stadio e rimango colpito dall’imponenza del posto, nel quale, ovviamente, non ero mai stato: uno stadio enorme, la culla storica della Juventus! Prendiamo posto in curva, siamo al primo livello, e con mio altro grosso sollievo siamo in una posizione centralissima. Certo, il palco è distante (e io, per l’ennesima volta, ho scordato a casa il cannocchiale…) ma sta lì, bello bello di fronte a noi. Ci sistemiamo, andiamo in bagno, facciamo tutto ma l’attesa è spasmodica: sono le sette e non vediamo l’ora di vedere/sentire i Police!

Poi finalmente c’è il primo gruppo di supporto, i salentini La Notte Della Taranta (coi quali Stewart Copeland si è entusiasticamente esibito in passato) che, per carità, saranno anche bravissimi, ma che dopo quattro/cinque pezzi hanno già rotto le palle. Luca sembra distratto, Anto & io non ne possiamo davvero più. Dopodiché ecco il secondo gruppo supporto, i Fiction Plane, una band nota per il fatto di essere capitanata dal primogenito di Sting, Joe Sumner: sono molto meno peggio di quanto mi aspettassi, sono un trio e quel raccomandato di Joe suona il basso ma la musica c’entra ben poco con quella dei Police ed è più che dignitosa. Se non altro, Joe si sforza di parlare l’italiano, si rivela abbastanza umile e, cosa a me molto più gradita, ha un timbro e una tecnica vocale che somigliano molto a quelli dell’illustre papà.

Sono ormai le nove di sera, data fatidica dell’inizio ufficiale del concerto dei Police, anche se il quarto d’ora accademico è lecito. Il quarto d’ora diventa mezzora e lo stadio è ormai al massimo della frenesia: nessuno sembra poterne più dell’attesa, anche quando ci mettono una gradita Get Up, Stand Up di Bob Marley & The Wailers ben sparata dall’impianto di amplificazione, e le grida & le ola & le risate si sprecano.

Finalmente il miracolo si compie: le luci si spengono, il palco si trasforma e si riveste di scintillanti colori, i tre eroi (senza alcun supporto di strumentisti aggiunti e di coriste) salgono sul palco fra il delirio della folla! I Police attaccano con Message In A Bottle (con Sting che non perde tempo e inserisce un graditissimo ‘ciao Torino’ nel testo), poi proseguono con una versione strepitosa di Synchronicity II e poi ancora con Walking On The Moon.

La band appare subito in grande forma, tenendo presente che non va in tour dal 1984 e che il più giovane, Stewart, ha cinquantacinquanni e il più vecchio, Summers, quasi sessantacinque. Sting fa paura, è uno splendido cinquantaseienne (fresco fresco nel giorno del suo compleanno) e appare notevolmente rilassato, Copeland è Copeland (leggasi il miglior batterista rock vivente) e Summers pare essersi ritagliato uno spazio chitarristico tutto suo e di ottima fattura. Ecco, a me è bastato vedere i Police in azione in questi primi tre pezzi per giustificare i soldi spesi per biglietto & viaggio, potevano finirla anche lì e sarei stato felice lo stesso! Ma lo spettacolo ovviamente è andato avanti, per due ore buone, davanti ad un pubblico molto caloroso che evidentemente sentiva tantissimo questa storica reunion.

I Police eseguono quindi brani tratti dai loro cinque album da studio, ovvero (non in quest’ordine preciso, che non ricordo la sequenza esatta… abbiate pazienza, ero in estasi!) la pulsante Driven To Tears, un medley fra Voices Inside My Head e When The World Is Running Down, la scanzonata De Do Do Do De Da Da Da, la punkeggiante Truth Hits Everybody, una Invisible Sun completamente riarrangiata (è più distesa), la celebre Don’t Stand So Close To Me, un interesante medley fra Hole In My Life e Hit The Road, Jack (storico hit di Ray Charles), una stupenda Wrapped Around Your Finger con Copeland in grande spolvero sulle percussioni, lo storico medley fra Can’t Stand Losing You e Reggatta De Blanc, la coinvolgentissima Every Little Thing She Does Is Magic, una più rockeggiante Walking In Your Footsteps e la celeberrima Roxanne (con tanto di nuova improvvisazione centrale, già sentita ai Grammy Awards lo scorso febbraio).

Dopodiché la solita tiritera della band che saluta, abbandona il palco & si ripresenta qualche minuto dopo fra sessantacinquemila ecclamazioni per il bis conclusivo. Si parte con la fantastica King Of Pain, si prosegue con So Lonely (ma forse è stata eseguita in precedenza e qui c’è una delle prime canzoni che ho citato poco fa), per poi finalmente imbattersi in Every Breath You Take. Ammetto di essermi commosso un pochino… i Police che a cento metri da me stanno suonando il loro classico… sono un loro fan da una vita…

Finita Every Breath You Take la band saluta il pubblico ma poi propone una ruggente versione della punkeggiante Next To You, con il pubblico alle stelle per tutto quello che ha visto e sentito. Fine del concerto… che dire… veramente emozionante, Antonella è felicissima, Luca è contento & rilassatissimo (anche perché ha fatto baldoria con due simpatici ubriaconi e s’è fatto grasse risate mentre quelli diventavano sempre più instabili sulle proprie gambe), io… beh, io… ero conscio di aver assistito ad uno dei più grandi spettacoli della mia vita.

Ritorno tranquillo, con quasi tutti i presenti sull’autobus addormentati, intervallato da ‘Fracchia la Belva Umana’ di Paolo Villaggio. Distrutti ma felicissimi dopo altre nove ore di strada e il sorgere del nuovo giorno. Se ne è valsa la pena? Cazzo se sì!! – Matteo Aceto