Woody Allen, “Interiors”, 1978

woody-allen-interiors-locandinaNon so voi ma spesso l’idea di leggermi un libro, di sentirmi un disco o di guardare un film resta a decantare nella mia mente per mesi se non addirittura per anni. E così, ad esempio, un film di Woody Allen che “prima o poi dovrò guardare”, ovvero quel “Interiors” del quale vorrei trattare in questo post, l’ho visto soltanto di recente, dopo anni che ripetevo a me stesso – per l’appunto – un convinto “prima o poi dovrò guardarlo”. Per farlo, tuttavia, ho dovuto acquistarne una copia in divuddì, dato che in tivù un film come “Interiors” non passa mai.

Essendo un grande appassionato del cinema di Woody Allen, anche se avrò visto la metà di tutti i film che ha fatto (ma quanti saranno?! ormai ho perso il conto), non potevo certo non imbattermi in “Interiors” che nella storia artistica del nostro si colloca come il suo primo film drammatico, risalente addirittura al 1978, quando Woody era reduce dai fasti d’un capolavoro come “Io e Annie” (forse il suo film più bello… forse…) e si apprestava a realizzare quell’altro colpo da maestro chiamato “Manhattan” (1979).

Insomma, schiacciato – per così dire – tra due commedie come “Io e Annie” e “Manhattan”, che restano due dei film più popolari e amati di Woody Allen, un’opera come “Interiors”, che qui possiamo definire per sommi capi come drammatica, austera, poetica e perfino silenziosa, non poteva che restarsene trascurata nel suo cantuccio, come un’estemporanea botta di seriosità che il nostro s’è voluto concedere tra una risata e l’altra in quei creativamente fervidi anni Settanta.

Eppure, in qualche modo, un film come “Interiors” tracciava il futuro: tutti noi sappiamo che nella lunga filmografia di Woody Allen, soprattutto in quella più recente, di film drammatici se ne trovano ormai un bel po’. Ecco perché, nel complesso di un ipotetico curriculum filmico, un’opera come “Interiors” non stona affatto, a differenza di quello che possono aver percepito gli spettatori del 1978.

E’ un film che a me è piaciuto molto, questo “Interiors”, e l’averlo comprato per potermelo rivedere con calma ogni volta che ne avrò voglia me lo rende anche più prezioso. Le protagoniste del film sono tre sorelle (anticipando forse un film che verrà, “Hannah e le sue sorelle”, del 1986, un altro dei capolavori alleniani, a mio modesto parere), tre sorelle molto diverse alle prese con la separazione dei propri genitori e la conseguente depressione della madre. Una madre, interpretata in maniera eccellente da Geraldine Page, che ha fatto della deformazione professionale (lei è un’arredatrice d’interni, da qui il titolo – anche se ha pure contorni simbolici – del film) uno stile di vita applicato a sé e alla sua famiglia.

Quando il marito le annuncia la separazione, va in pezzi non soltanto lei ma anche tutta quella fortezza di ghiaccio nella quale aveva collocato un marito in carriera e tre bambine diventate donne molto in fretta. I pezzi di ghiaccio colpiscono tutti e cinque i protagonisti, ognuno alla sua maniera, con risvolti psicologicamente molto interessanti, secondo la mia modestissima opinione.

Un film alla Bergman, si è detto di “Interiors”, alla luce d’una influenza che Woody Allen non ha mai negato. Al cinema di Ingmar Bergman, infatti, il nostro non si è ispirato soltanto nell’uso della cinepresa (che conferisce a certe scene un effetto quadro che io ho sempre ritenuto ammirevole, soprattutto nel cinema di Federico Fellini, un altro che con Bergman ha più d’un punto in contatto) ma anche, fra le altre cose, nell’uso dell’audio, tanto che in “Interiors” non c’è praticamente nessuna colonna sonora in sottofondo, nemmeno nei titoli di testa e di coda.

Definito dallo stesso Allen e senza mezzi termini come il classico passo più lungo della gamba, un film del genere non ha soddisfatto né le aspettative del pubblico e né quelle del suo autore, che ha dichiarato di non essere riuscito a esprimere con “Interiors” quello che aveva da dire. E la cosa potrebbe sembrare ironica di per sé pensando al personaggio interpretato nel film dalla brava Mary Beth Hurt, quella che fra le tre sorelle è meno riuscita ad esprimere se stessa. Avere tutto un mondo dentro e non trovare i mezzi per esternarlo. Ecco il punto centrale, che evidentemente ha riguardato lo stesso Woody Allen alle prese con questo suo primo film drammatico, e che evidentemente può affascinare anche il più smaliziato degli spettatori nel 2016. O almeno, uno come me. – Matteo Aceto

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Woody Allen, “Basta che funzioni”, 2009

woody-allen-basta-che-funzioni-immagine-pubblica-blogLa dolce Antonella & io, ieri sera, siamo andati in un multisala a vederci il nuovo film di Woody Allen, “Whatever Works – Basta che funzioni”. Sapevo che con questo film, dopo una parentesi europea (ambientazioni inglesi per “Scoop” e “Match Point”, spagnole per “Vicky Cristina Barcelona”), il celebre attore/regista tornava alla sua città, New York, teatro delle sue storie più famose & apprezzate.

E in effetti, a New York, Woody Allen sembra ritrovare un’ispirazione comica e una maniera di fare cinema che apprezzo maggiormente: questo “Basta che funzioni” è un tipico film di Woody Allen, tanto che mi sono chiesto come mai non vi abbia recitato, dato che il protagonista della storia – un candidato Nobel per la fisica ormai ritirato, misantropo, cinico, afflitto da ipocondria e tendente al suicidio – sembra tagliato su misura per lui. Tuttavia l’attore protagonista, Larry David, è stato così bravo che il film funziona anche senza vedere la faccia e le movenze impacciate di Woody.

E’ un film sugli anticonformisti che diventano conformisti e viceversa, con una morale di fondo che sa di sopravvivenza più che di speranza, ‘basta che funzioni’, per l’appunto. E così, alla fine, tutto torna a posto, tutto riacquista quell’equilibrio necessario affinché le nostre vite di gente comune possano procedere serenamente. Consigliatissimo agli appassionati di Woody Allen. – Matteo Aceto